Il prof delle due alluvioni che commosse il premier

È come se il destino si fosse intestardito ad accanirsi su questo Giobbe dei nostri tempi, senza tuttavia riuscire a fiaccarne lo spirito, a indurirgli il cuore. Un’alluvione che ti porta via la casa puoi anche sopportarla. Due no. Due sono davvero troppe. Il professor Orio Grazia, insegnante di scuola media che dispensa il suo sapere e la sua umanità agli alunni svantaggiati, ha le pupille d’acquamarina cantate da Eugenio Montale. Ma quegli occhi hanno cominciato a specchiarsi in acque limacciose prim’ancora di vedere la luce del sole. «Il 9 luglio 1960, alle 15.30, il paese fu messo in ginocchio da un nubifragio storico. Si salvò dalla grandine solo qualche grappolo d’uva cresciuto al riparo dei muri di brolo. Da decine di ettari vitati, i nostri cugini Prà ricavarono un’unica bottiglia di Soave. Anche mio padre era un viticoltore, pregò Dio perché non nascessi in quell’anno maledetto e mia madre lo accontentò partorendomi il 7 gennaio 1961. Due anni dopo dovette rassegnarsi a prendere un posto da bidello, che gli fu assegnato quale invalido reduce dai lager nazisti. Furono talmente numerosi i contadini rovinati costretti dalla fame a emigrare nelle miniere in Francia e in Belgio che a un certo punto la prefettura bloccò gli espatri per non dover cancellare la località dalla carta geografica».
La prima alluvione di Orio, la notte fra il 7 e l’8 luglio 2005, erano fogne. «Bastarono tre temporali uno di seguito all’altro. Il torrente Alpone ruppe l’argine. I tombini di ghisa saltavano per aria fino a un metro d’altezza. Ho resistito a svuotare i liquami col secchio per 20 minuti. Poi mi sono dovuto arrendere». Studio, taverna, garage e cantina distrutti. Almeno 20.000 euro di danni. Nessun risarcimento.
Su Monteforte d’Alpone, paesotto del Veronese gemellato dalle disgrazie e dal vino col vicino Comune di Soave, pioveva a dirotto da tre giorni anche all’alba di Ognissanti dell’anno scorso. «Mi ero alzato presto. Volevo approfittare del giorno di festa per preparare le lezioni della settimana. Alle 8.30 mi telefona Ernesto: “Lì come siete messi?”. Non capivo. Allora lui mi dice che sua figlia ha appena visto su Facebook le foto di mezzo paese sott’acqua. Credevo scherzasse. Sono corso in strada. Ho incontrato il maresciallo dei carabinieri. Era in allerta dalle tre e mezzo di notte: “L’Alpone ha rotto. Vediamo come si mette”. Il primo pensiero è stato per Francesca. Nostra figlia dormiva beata nel suo letto, ignara di tutto. Ho racimolato assi, pietre, sabbia, tutto quello che ho trovato, per cercare di sbarrare le porte. Il livello dell’acqua aumentava a vista d’occhio. Mia moglie Luisa ha messo in salvo Anna, la più piccola, 6 anni. Poi ha cercato di tirare fuori l’auto dal garage. Il suo unico pensiero era portare via Francesca. “Noooo!”, le urlavano i vicini dalle finestre. Per fortuna non è riuscita a fare retromarcia. Un minuto dopo l’ondata di piena, un muro d’acqua alto due metri, se la sarebbe portata via».
Francesca ha 14 anni, ma è come se fosse coetanea di Anna. È affetta dalla nascita da una patologia complessa e rarissima, un encefalocele occipitale, cioè la mancata chiusura del cranio a livello della nuca. Una spina bifida al contrario, una situazione incompatibile con la vita. Ma lei a questa vita s’è attaccata con tutte le sue forze. «Al momento del parto, all’ospedale mi fecero accomodare su una sedia prima di dirmi che avevano riscontrato “un problema”».
Fino a 4 anni, Francesca è stata cieca. Ma poi il suo cervello, da primordiale che era, ha saputo organizzarsi, progredire, attivare vie proprie, funzioni vicarianti inaspettate. Ora vede attraverso i corpi genicolati del talamo ottico. Per esempio distingue i genitori dai giornalisti. Ha potuto imparare a leggere e scrivere con l’ausilio di un computer. Si contano solo tre o quattro casi al mondo di bimbi arrivati all’adolescenza nonostante una simile anomalia e lei è uno di questi. «Scruta le persone, prova un’immensa gioia a stare con la gente, ha molto da insegnare pur vivendo nel suo mondo semplice. Per farla nascere sana bastava che i medici avessero prescritto a mia moglie un po’ di acido folico, in pratica vitamina B9, durante la gravidanza. Non diagnosticarono questa rara malformazione neppure durante le ecografie. In un altro Paese sarebbero stati radiati. Io invece li ringrazio: se ce l’avessero detto, ci toccava fare i conti con la scelta drammatica di un aborto e magari oggi Francesca non sarebbe con noi».
La casa di viale Europa il papà l’aveva costruita su misura per Francesca: tutta a pianterreno, senza barriere architettoniche. Soprattutto sicura, pensava. Per poi scoprire, invece, che quello era il punto più basso del paese, dove s’è concentrata la potenza distruttiva dell’inondazione che nell’Est veronese ha sconvolto i destini di 1.024 famiglie e di 459 aziende, arrecando danni per 58 milioni di euro. Perciò fu proprio qui che, nove giorni dopo il disastro, volle sostare il presidente del Consiglio, travolto a sua volta, fino alle lacrime, dalla rabbiosa compostezza e dall’indomita forza d’animo del professor Grazia e di sua moglie Luisa, laureata in lettere come lui a Padova, marito e moglie dall’11 settembre 1993, «prima festeggiavamo sempre l’anniversario, ma poi Osama Bin Laden ci ha rovinato anche questa ricorrenza...».
Lei calzava ancora gli stivali sporchi di fango quando accolse Silvio Berlusconi.
«Il premier si fece precedere da una telefonata del Comune per essere sicuro di non arrecarci disturbo. Figurarsi. Anzi fui io a scusarmi per non potergli offrire nemmeno un caffè con un biscottino».
Che vi disse?
«Lasciò parlare solo noi per un quarto d’ora, e di questo gli sarò per sempre grato. Non fu una visita di circostanza. Guardi, io non tifo manco per il Milan, sono interista, ma sarei disonesto se non testimoniassi che s’immedesimò nel nostro dramma. Volle entrare nella casa devastata solo con noi, niente codazzo. Ascoltava senza interrompere. Molti dei suggerimenti che mi permisi di dargli ho poi avuto la sorpresa di ritrovarli nell’ordinanza che stanzia gli aiuti per gli alluvionati. Alla fine dell’incontro accarezzò mia moglie sulla guancia e chiese a bruciapelo: “Di quanto avete bisogno? Posso avere il vostro numero di conto corrente?”».
E lei?
«Gli risposi, confuso: presidente, siamo in tanti ad aver visto andare in fumo i risparmi di una vita, usi semmai le coordinate bancarie del Comune. Dopo qualche settimana ci arrivarono 50.000 euro».
Ma i risarcimenti dello Stato li avete riscossi?
«Non sono risarcimenti, che avrebbero coperto i danni al 100 per cento ma implicato un’ammissione di colpa. Si tratta di contributi fino a un massimo di 30.000 euro, che escludono i lavori in economia. Chi s’è subito comprato i mattoni e la malta e ha lavorato giorno e notte da solo per ripararsi l’alloggio, non avrà nulla. Siamo all’assurdo per cui se il frigorifero nuovo è costato meno di 1.000 euro non te lo rimborsano. Un mio vicino ha fatto riparare l’auto: 986 euro. Anche a lui niente rimborso perché il conto del carrozziere dev’essere superiore ai 1.000 euro».
Voi che cosa avete perso?
«Tutto quello che avevamo, per un valore di almeno 150.000 euro. Non si sono salvati neppure i mobili di noce massello: li sollevavi dal fango e ti si sbriciolavano fra le mani come cartone. Il dolore più grande è stato per il riccio Carlo, il peluche che aveva tenuto compagnia a Francesca in tutti gli ospedali in cui è stata ricoverata, e per i libri: la Treccani, le edizioni d’arte della fondazione Marilena Ferrari... E poi un’utilitaria e una Peugeot attrezzata per il trasporto dei disabili. Dopo la prima alluvione, avevo deciso di salvarmi in formato elettronico le poche immagini di famiglia che mi erano rimaste; dopo la seconda, quando abbiamo ripescato il computer dal fango, il disco fisso era irrecuperabile, un mattone di creta. Ma la vera tragedia è che io in quella villetta non mi sento più sicuro. Ho chiesto un preventivo per sopraelevarla di tre metri: 330.000 euro».
Questa casa in cui vivete di chi è?
«Era di mia madre, mancata nel 2009. Pensi che, come figlio unico, avevo pronta la pratica successoria. L’inondazione s’è portato via anche quella. Dovrò pagare una multa per il ritardo».
Quando l’acqua comincia a entrare, il primo pensiero qual è?
«Salvare il salvabile. Ho cominciato dai cassetti più bassi. Ammonticchiavo la roba sopra i mobili. Alle 7 di sera ho capito che era tutto inutile: l’arredamento è collassato. Francesca l’ho portata fuori di casa tenendola fra le braccia. L’acqua mi arrivava alle spalle. Era terrorizzata. Non ha più voluto tornare in piscina, dove la portavamo per le terapie. Sono dovuti intervenire due sommozzatori per recuperare il deambulatore brachiale che le consente di camminare. E il calvario non è ancora finito».
Perché?
«Mia figlia ha subìto finora sette interventi chirurgici. Un’operazione bilaterale ai femori è riuscita a metà. Da maggio aspettiamo questo intervento che dovrebbe sistemare i suoi arti inferiori. Non si regge quasi più in piedi. L’ho messa in lista d’attesa alla clinica Humanitas di Rozzano. Sembrava che la operassero a luglio. Poi a settembre. Pochi giorni fa ci hanno comunicato che prima di metà novembre non se ne parla. Ho dovuto costruire una scala metallica esterna e ogni giorno me la carico a spalle per portarla dentro e fuori casa».
La sua odissea è diventata un libro, Il tempo dell’umiltà.
«Per quasi cinque mesi abbiamo vissuto presso i miei suoceri, a Gambellara. Non dormivo. L’ho scritto per liberarmi dalle tossine. Avevo perso il controllo. Ho fatto scenate davanti agli amministratori comunali di cui mi vergognerò per tutta la vita. Ho imparato a bestemmiare in faccia al mio parroco, don Alessandro Bonetti. Non avrei mai creduto di poter arrivare a tanto. Mi trovavo in municipio, lui è capitato lì per caso e io l’ho investito con un’orribile sequela blasfema. Non dimenticherò mai più il suo volto: mi giudicava e mi perdonava nello stesso istante. Le ho pensate tutte, in quei giorni. Ho meditato di farla finita per sempre, con tutta la famiglia. Ero in preda a una rabbia incontenibile, irrazionale. Perché una calamità nella vita ci può anche stare, ma quello del 2010 è stato un evento fraudolento, provocato da molti che non hanno fatto con coscienza il loro mestiere».
Come mai ha scelto quel titolo?
«I primi aiuti mi sono arrivati proprio dal parroco. Nel mio stupido orgoglio, non volevo accettarli. Allora don Alessandro, che è un marcantonio, mi ha stretto forte le braccia e mi ha detto: “Orio, questo per te è il tempo dell’umiltà”. Mi ha richiamato a un dovere di civiltà. Adesso so che cosa sono i danni morali. Ho abbandonato propositi omicidi e suicidi, ho smesso di urlare, ho compreso che non serviva a nulla buttare altro veleno dove l’acqua ne aveva già portato tanto. Io so soltanto scrivere. Ho scritto. Alla fine ho letto il libro a mia moglie e a mia suocera: piangevano. Ho pensato: vuol dire che qualche emozione la trasmette. Vorrei venderne 100.000 copie e dare tutto il ricavato al mio paese».
Glielo auguro. Mi sembrano tante.
«Tutto ciò che s’è fatto di grande al mondo s’è sempre fatto nel nome di speranze eccessive».
Perché mezza Italia va sott’acqua ogni volta che piove più del solito? Lei l’ha capito?
«Prima che qui arrivasse la modernità, tutt’intorno al paese c’erano canaloni larghi almeno 5 metri dove lasciar sfogare l’Alpone, che i nostri antenati, sei secoli fa, avevano raffigurato come un mostro al quale la Madonna del Drago, custodita nella chiesa dei cappuccini al camposanto, schiaccia la testa. Hanno coperto i fossati per costruirci sopra le case. E c’erano anche due persone, i guardiani del fiume, pagati dai consorzi di bonifica, che alle prime piogge insistenti indossavano la cerata, come i marinai, e andavano su e giù per le sponde. Quando il torrente superava il livello di guardia, rompevano gli argini, lasciando defluire le acque in un bacino naturale. Hanno cementificato anche quello. Ci aggiunga che nessun contadino pulisce più i solchi scavati di traverso sulle strade di montagna, oggi trasformate perciò in scivoli che convogliano a valle le acque piovane in quantità impressionanti e in tempi rapidissimi».
Si sono incolpate le nutrie, che erodono gli argini scavandoci gallerie.
«Le nutrie abitano i luoghi a modo loro e ci insegnano che la natura va rispettata. Se non le avessimo portate qui dal Sudamerica negli anni Venti per fornire a poco prezzo una pelliccia di castorino alle signore della buona società, non avremmo motivi per temerle nel 2011».
D’accordo, però «l’acqua disfa li monti e riempie le valli e vorrebbe ridurre la Terra in perfetta sfericità, s’ella potesse».

Lo scriveva Leonardo da Vinci.
«La vita è costellata di imprevisti. Non sappiamo quando ci verranno incontro. L’estote parati, state pronti, non può riguardare soltanto l’anima».
(562. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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