(...) Lo abbiamo lasciato che parlava di calcio con il solito entusiasmo. Si era appassionato alle nazionali africane, amava i personaggi forti come lui, uno fra tutti il generale Gheddafi. Eravamo a cena, una sera, salì sul tavolo del noto ristorante a San Cipriano, incominciò a parlare in libico con grande disinvoltura. E la colonia di tunisini? Sì al Genoa cè stata anche questa parentesi. Bouzaiene, Gabsi, El Ouare. Li aveva presentati al popolo rossoblù come gli ultimi talenti del calcio italiano. Ma il bello è che giocavano come se li fossero stati davvero. Trasmetteva sul rettangolo verde le stesse emozioni che sentiva dentro e faceva divertire tutti. A cominciare dal presidentissimo Aldo Spinelli. Avevano capito Genova, loro due. E formavano un grande gruppo. Un giorno arrivai al campo. Spinelli era sullangolo del corner. «Presidente cosa ci fa lì?». «Faccio la bandierina», mi rispose candidamente, «Sa, non ce ne sono e Scoglio mi ha detto di guardare la partita da qui». La sapeva lunga, il Professore: «Allora, i giornali nazionali devono scrivere questa formazione, scusate, mi serve per la pretattica. Alla stampa locale invece dò la formazione giusta perchè intanto nel paese delle squadra avversaria il giornale non arriva».
Viveva per novanta minuti da brivido, non dormiva, mangiava pochissimo. Solo schemi, tattica, «Il rombo come lo faccio io non lo fa nessuno. Questi qui mi copiano ma non sanno quello che fanno», diceva allindirizzo degli allenatori emergenti.
Viva sopra le righe, allenava sopra le righe. Intelligenza tattica, non voleva altro dalla sua squadra. Portava nel cuore Gianluca Signorini, lunica volta aveva pianto per il grande Capitano: «Erano due innamorati - racconta la moglie Antonella - Si stimavano ancor prima di conoscersi di persona. Poi ci fu quella frase ormai famosa che li unì per sempre». Rivolta a Spinelli: «Se mi prendi Signorini vado in A con 50 punti». Ne fece 51. In qualche modo portava nel cuore anche tutti i giornalisti genovesi: le sue rifiniture erano le più lunghe della storia. Due ore di conferenza stampa, le cassette finivano il nastro. Dava del Voi a chi gli stava davanti. Era un segno di rispetto. Mai del Lei, altrimenti voleva dire che gli stavi antipatico o che era infuriato con qualcuno. Poi cerano le volte che scrivevi qualcosa che non andava. Per lui erano notizie «Ad minchiam».
Con lui il Genoa ha vissuto una grande promozione, poi il ritorno sulla panchina rossoblù, a corrente alternata. Non passava inosservato il professore: «Io ne alleno 14 tutti gli altri non esistono». Breda gli aveva fatto causa. Per tutta risposta un sabato mattina, invece di parlare degli avversari, mi aveva portato a fare un giro, insieme alla collega Maria Grazia Barile, negli spogliatoi di Pegli. Obiettivo: farci vedere che i suoi giocatori erano trattati tutti allo stesso modo. E pazienza per gli sguardi imbarazzati dei giocatori che avevano visto entrare due donne nei meandri del Pio XII.
«Me tolga il becco», urlava alle donne giornaliste. Il «becco» era il microfono e il calcio era solo «roba da maschi». Ma poi bastava conoscerlo, guadagnarsi la sua fiducia e allora tutto passava in secondo piano. Quello che contava era soltanto il rettangolo verde. E il Genoa: «Ho lasciato i Mondiali con la Tunisia per salvare la squadra». Era il suo più grande rammarico. Ma non si era dato per vinto, aveva ricominciato ad allenare. Giubottino rigorosamente nero, lo stesso estate e inverno. Fischietto alla bocca. Le partite le guardava dalla tribuna insieme ai tifosi, quando era sul campo parlava al telefonino. Era tornato in grande stile per la sfortunata avventura partenopea. Buoni risultati, ma il personaggio era troppo ingombrante per gente che crede di aver inventato il calcio. Si era ripreso il suo secondo.
Era così il Professore. Sopra le righe, in tutto. E come aveva vissuto se ne è andato. Con un colpo di teatro, litigando con «lacerrimo nemico». Addio Professore.
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