Il professore che dirige la fabbrica delle parole

Niccolò Tommaseo firmò il contratto per il suo primo dizionario a 54 anni, Nicola Zingarelli a 52, Mario Cannella a 50. Parafrasando Cormac McCarthy, verrebbe da dire che il vocabolario è una faccenda per vecchi. «Per diversamente giovani», corregge l’uomo che ormai da un ventennio sovrintende alla fabbrica delle parole, cioè lo Zingarelli. Oggi il professor Cannella va per i 72 e, benché pensionato, nella sua casa-bottega di Vimercate, alle porte di Milano, fa a tempo pieno il lessicografo di mestiere, per cui può entrare subito in argomento: «Mestiere rimanda al latino ministerium, servizio, e quindi a minister, servitore, la stessa origine di ministro». Il suo servizio all’Italia, che comporta mediamente 10-12 ore di lavoro al giorno, è appunto questo: rivedere ogni anno circa 15.000 delle oltre 143.000 voci che riempiono le 2.720 pagine del dizionario edito dalla Zanichelli, il più vecchio fra quelli che vengono aggiornati ogni 365 giorni, essendo stato pubblicato per la prima volta a dispense dal 1912 e poi in volume dal 1922. E, soprattutto, aggiungervi dalle 1.200 alle 1.500 nuove parole. Insomma, a partire dallo Zingarelli 1994 è lui la Cassazione del neologismo.
Cannella è nato a Trieste, dove ha frequentato il liceo classico Dante Alighieri, stessa sezione, la B, di Claudio Magris, che era un anno più avanti. S’iscrisse a Giurisprudenza, ma poi passò a Lettere e Filosofia, «perché volevo indagare ciò che sta a monte del diritto, la parola, che non a caso nei testi giuridici ha un’importanza fondamentale: basta spostare una virgola per cambiare una legge». Sconcerto dei genitori. Tentativi, vani, di dissuaderlo. «Forse c’entrava l’inquietudine tipica di noi triestini citata da Giorgio Strehler in una commemorazione del poeta Umberto Saba, quella che ci spinge a cambiare, a non accontentarci mai, ad andarcene dalla nostra città, quasi che la bora, oltre ai capelli, scompigliasse anche l’animo».
Dopo la laurea in letteratura italiana, il professor Cannella raggiunse a Milano la sua futura moglie, Donatella Cappellari. Pochi anni d’insegnamento nella scuola media e nei corsi cosiddetti delle 150 ore, lezioni serali ad adulti dai 18 ai 70 anni, «utenti medi e medio bassi del vocabolario che per primi mi hanno obbligato a essere chiaro e comprensibile». Poi, nel 1978, il grande salto: docente all’Università di lingue estere n. 1 di Pechino, dove cercavano un temerario che redigesse il primo dizionario italiano-cinese. «Portai con me la famiglia. Restammo là fino al 1980, senza mai ritornare in Italia. Sensi di colpa? Guardi, se li ho, non me li ricordo. Per mia figlia Francesca, che aveva appena 5 anni, fu uno shock. Dalla scuola materna in zona Città Studi, si ritrovò in un asilo col pavimento di terra battuta. In sei mesi aveva già imparato la lingua locale. Ma rimosse di colpo l’esperienza cinese al rientro in Europa, dopo un viaggio di 12 giorni sulla Transiberiana, quando, arrivata a Vienna, vide le vetrine dei negozi addobbate per il Natale».
Dei due inverni trascorsi a Pechino con 20 gradi sotto zero, a stento mitigati da una stufa di ghisa nella stanza assegnatagli dall’ateneo, Cannella ricorda i guanti («me li toglievo solo per scrivere») e le cene con Piero Ostellino, corrispondente del Corriere della Sera: «Noi gli preparavamo la pasta e fagioli e lui ci raccontava quello che non potevamo sapere». Mao Tse-tung era morto da tre anni. «Cinque dei professori con cui lavoravo provenivano dai campi, dove li avevano mandati “a rieducarsi fra le masse” durante la Rivoluzione culturale. Come base di riferimento utilizzai lo Zingarelli del 1970. Allora non usciva tutti gli anni. Lo consultavo a tappe forzate, 100 pagine al mese. Alla fine, guardando la copertina, mi dissi: io qui ci voglio entrare». Di quell’esperienza gli resta il dizionario italiano-cinese, il primo al mondo, e per molti anni l’unico; milioni di ideogrammi che cominciano con13 lettere dell’alfabeto latino: Mario Cannella.
Che doti sono richieste al lessicografo?
«Occhio, orecchio, cervello, estro. L’occhio serve a cogliere le novità nella lettura di qualunque testo, dall’articolo di giornale al cartellone pubblicitario. L’orecchio dev’essere sempre teso quando si ascoltano la radio, la televisione o una conversazione. Il cervello è la sede della capacità logica nel costruire le voci del dizionario. L’estro soccorre nella creazione di esempi adeguati che spieghino le parole».
Perché nel Tommaseo la definizione di casa consta di 29.381 caratteri, cioè quasi due volte e mezzo la lunghezza che avrà quest’intervista, mentre nello Zingarelli curato da lei si ferma a 5.610?
«Quella era la lingua letteraria, scritta. Pochi la parlavano. Il Tommaseo la infarciva di citazioni. E si allargava parecchio nelle definizioni: a proposito del mestiere di lessicografo, per esempio, scrisse che era poco pagato. In compenso la voce cane cominciava così: “Quadrupede noto”».
Giulio Nascimbeni mi ripeteva spesso: «L’unico libro in cui troverai sempre qualcosa di nuovo è il dizionario».
«Aveva ragione. Non è solo un luogo di domande e risposte, bensì un viaggio nello spazio e nel tempo».
Suppongo che lo conosca a memoria.
«Credo che neppure Pico della Mirandola sarebbe arrivato a questo traguardo».
Mirònico. Che mi risponde?
«Dev’essere un lemma specialistico».
«Detto di acido organico complesso contenuto sotto forma di sale potassico nei semi della senape nera».
«Ecco, lemma chimico. Più vado avanti e più so di non sapere, come diceva Socrate».
Vaglia davvero tutte le nuove parole?
«Certo. A volte mi capita di ascoltarle per radio, mentre sono in auto, per cui raccomando a mia moglie di ricordarmele appena arriviamo a casa. I neologismi sono di due tipi: quelli lessicali, cioè vocaboli che prima non esistevano, e quelli semantici, che acquistano nuovi significati col mutare dei tempi. Prenda navigare: oggi si naviga anche in montagna, basta avere con sé uno smartphone e collegarsi a Internet».
Ho letto che le idee migliori le vengono sulle cime dolomitiche.
«Mentre cammino o mentre pedalo in Val Badia, sì. Ma anche in Valtellina, sulla Grigna, sul Resegone. Sono ipoteso, col movimento il sangue irrora meglio il cervello».
Quante volte ha dovuto sentir ripetere kebabbaro o sclerare prima di inserirli nello Zingarelli?
«Si seguono precisi criteri. Il filtro iniziale è rappresentato dalla frequenza con cui una nuova parola è citata sulle testate nazionali, Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Giornale, Sole 24 Ore e Gazzetta dello Sport, e su alcuni quotidiani di nicchia, come Foglio, Manifesto e Avvenire. Idem sui settimanali Panorama ed Espresso. Se una parola è significativa, ci mette pochissimo ad affiorare. Si ricorda inciucio? Viene da ’nciucio, che nel dialetto caprese significa pettegolezzo maligno. Massimo D’Alema lo usò per designare un accordo sottobanco, un pateracchio, in un’intervista rilasciata alla Repubblica nell’ottobre 1995. Da allora è rimasto nel linguaggio della politica e ha generato qualche figlio, da inciucista a inciucione».
Ma attinge solo dai giornali?
«No. Una delle fonti primarie per un riscontro è il Ciz, ovvero il Corpus italiano Zanichelli, un database che contiene 5 miliardi di caratteri, 1.120 volte la lunghezza della Bibbia, e racchiude otto secoli di opere, da Jacopone da Todi a Mario Luzi, più intere annate della stampa quotidiana e periodica. Questo consente una selezione e un affinamento rigorosi. Esemplifico: celodurismo, nato da una locuzione volgare, si usa dal 1993 ma è entrato nello Zingarelli soltanto dall’edizione 2012, dopo che è stato attribuito a un politico statunitense e quindi ha smarrito la sua originaria connessione col gergo leghista».
Ci sono lemmi che non le sono mai piaciuti e che ciononostante è stato costretto a registrare?
«C’erano. Uno è il burocratico attenzionare. Anche vigilessa m’infastidiva parecchio, sembrava una presa in giro. Ora è entrato nell’orecchio di tutti. Il fatto che una certa parola figuri nel vocabolario non va considerato come un via libera a un uso indiscriminato».
Perché sfiga, che nel 1994 era «volgare», oggi è classificato «colloquiale»? Chi l’ha deciso? E soprattutto come ha fatto a perdere la volgarità di partenza?
«L’ha deciso il cambiamento dei costumi. Se io da giovane avessi detto “casino”, mio padre m’avrebbe buttato giù dalla sedia con un’occhiata. Oggi se un insegnante invita gli alunni a non fare casino in classe, non si scandalizza nessuno».
«La moltitudine dei peccatori toglie la vergogna del peccato». Seneca. È questa la morale?
«No, è questione di registro, cioè di livello espressivo, più o meno formale. Lo spiego in continuazione a Riccardo, il mio nipotino. Se ti scappa di pronunciare una parola perché sei arrabbiato, passi. Ma quando sei fuori casa non la devi dire».
Ha dichiarato che 4.000 referenze su Google costituiscono motivo per introdurre un neologismo nel vocabolario. Prima che arrivasse Internet come facevate?
«Un momento: stiamo parlando di una doppia verifica. E poi teniamo in gran conto il valore dei siti. Un tempo potevamo basarci solo sulla stampa. Miro Dogliotti, che mi ha preceduto in questo lavoro, ancor oggi porta in redazione qualche scheda di segnalazione alla quale pinza le pezze d’appoggio, cioè articoli di giornale».
Ma che senso ha inserire il sostantivo raga che nel linguaggio giovanile è un’abbreviazione di ragazzo o ragazza, con relativi plurali? Un dizionario che rincorre le mode non contribuisce alla corruzione della lingua?
«Non rincorriamo le mode, tutt’altro. Sa quando apparve raga per la prima volta? In epoca antecedente al 1963. L’ha usato Beppe Fenoglio nel romanzo Il partigiano Johnny».
Che neologismi troveremo nello Zingarelli 2013?
«Non glielo posso dire».
Almeno uno.
«Pensionando, che definisce chi deve andare in pensione o aspira a farlo. Di stretta attualità, direi».
Qual è, a suo giudizio, lo stato di salute dell’italiano parlato e scritto?
«Ci vediamo domani alle 7». (Ride).
Meglio subito. Mi basta un aggettivo.
«Bifronte. La stupirò: da un lato positivo, perché per la prima volta dall’Unità a oggi la stragrande maggioranza degli italiani è in grado di comunicare, almeno oralmente, usando la lingua italiana; dall’altro negativo, perché c’è stato un netto peggioramento del livello medio della competenza ortografica, morfologica e sintattica nella scuola. Comunque aveva ragione il grande linguista Graziadio Isaia Ascoli, quando, in polemica con Alessandro Manzoni, pronosticò che solo lo sviluppo civile e culturale avrebbe unificato il linguaggio della nazione. L’italiano è nato attraverso la comunanza dei soldati nelle trincee durante due guerre mondiali, la diffusione della stampa, l’avvento della radio e della televisione, le canzoni, lo sport, le radiocronache di Nicolò Carosio, e così via».
Ha fatto caso che nei giornali, da quando per ragioni economiche sono stati eliminati i correttori di bozze, si assiste a una profusione di accentati, anziché apostrofati?
«Purtroppo sì. Lei provi a dettare nei licei questa frase: “Di mele non ce n’è più”. Poi ne riparliamo».
Dall’alto della sua cattedra potrebbe avvisare i miei colleghi che al plurale restano invariati i sostantivi stranieri entrati nell’uso comune? Quindi le royalty e non le roialties.
«Volentieri. Anche perché nessuno di loro scrive i boxes al posto di box o blitzes al posto di blitz. Ma, che vuole mai, è come per il latino: ci sarà sempre chi dice i curricula, peraltro correttissimo uso alla latina, anziché i curriculum, soltanto per far vedere che ha frequentato il classico».
Sarà un caso che lo stereotipo linguistico più abusato di questi tempi sia come dire?
«Ogni stagione ha il suo nella misura in cui. Mi preoccupano di più gli stereotipi scorretti - uno per tutti: piuttosto che al posto di oppure - dilaganti persino, ahimè, fra alcuni ministri di questo nuovo governo di super professori».
Perché lo Zingarelli riporta ancora 10.000 lemmi arcaici, molti dei quali risalenti al Tre-Quattrocento?
«Perché il nostro compito è di traghettare il patrimonio della lingua italiana nei secoli a venire. È il motivo per cui ci teniamo stretto mangianastri, nonostante la tecnologia obsoleta lo renda quasi preistorico per un ragazzino d’oggi. Ma è presente in testi piuttosto noti, come La bella di Lodi di Alberto Arbasino e Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro».
Che cosa si prova a decidere per tutti, senza possibilità di appello, che cosa è giusto o non è giusto dire? È un potere che ormai non ha più manco il Papa, quasi.


«Non sindachiamo che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato. Lo Zingarelli è solo un’agenzia autorevole che fissa lo stato della lingua in un dato momento storico. Siamo notai, non giudici».
(572. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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