Tony Damascelli
«Dio creò il pallone ma, non soddisfatto, chiamò Galeone e disse: vai in giro ad insegnarlo». Stava scritto così su uno striscione esposto dai tifosi abruzzesi in curva, prima di Pescara-Triestina, addì sedici di giugno del millenovecentonovantuno. La famiglia Pozzo deve essere assai vicina a Nostro Signore, si è ricordata di quello strillo curvaiolo e dunque ha chiamato il Profeta dellAdriatico perché insegni il calcio ai pellegrini dellUdinese.
Dunque Giovanni Galeone (Napoli, 25 gennaio 1941), è di nuovo allenatore. In Friuli Galeone ha piantato radici forti, qui aveva concluso la sua carriera di calciatore: «Se oggi perdiamo, smetto», aveva promesso alla vigilia di Vicenza-Udinese, decisiva per la promozione in B. Vinse la squadra della Lanerossi, 2 a 0, Galeone a trentadue anni tenne fede alla promessa. Incominciò ad allenare, cosa che gli è riuscita non sempre e non dovunque, ma ciò nonostante ha saputo costruirsi una buona e bella immagine: scravattato, spettinato, stralunato, strainvitato, straintervistato.
Sposato a una insegnante di lettere si è portato lamore al lavoro, nel senso che dove ha potuto e voluto ha saputo vendere il prodotto: addirittura facendo scrivere che al suo fianco, sulla panchina, fosse presente, oltre alle riserve, al massaggiatore, al team manager anche un libro di poesie di Prévert. La qual cosa, assieme ad altri autori pubblicizzati, da Camus a Proust a Brecht, gli è valsa alcuni giri di vantaggio sui colleghi fermi al quattro-tre-tre e a una credibilità professionale più forte di molti mestieranti. Giovanni Galeone non si è mai dimenticato di essere nato a Napoli e dunque ha saputo mettere il fiocco sul proprio bel dire, anche se questo non era confortato da un bel fare. Per esempio lultima sua esibizione panchinara risale ad Ancona con la squadra retrocessa, dodici sconfitte, due vittorie, due pareggi, cancelliamo? Oppure il rapporto di odio e amore con Luciano Gaucci, di cui si ricevono oggi tumultuose notizie da Santo Domingo, e ancora quella visita da Massimo Moratti, dopo il licenziamento, tra mille, di Roy Hodgson: «Il presidente mi domandò: lei, in che rapporti è con Moggi? Ancora adesso non riesco a capire che cosa volesse dire».
LInter è la squadra del cuore vera di Giovanni Galeone; Moratti e Allodi, Corso e Suarez, scaldano più di Prévert e Brecht, più dei buoni vini come il Sassicaia che lui sa bere e per i quali sa spendere, a differenza degli avarissimi sodali suoi che dal cestino della prima colazione acciuffano la brioche più grande. Proprio lInter gli viene incontro in coppa Italia, con certi fenomeni di cui lui ha saputo dire così: «Recoba? Lo farei giocare a Montevideo o a Perugia o a Lecce. Datemi lInter di quelli ceduti e non vi assicuro lo scudetto ma quasi».
Così come sarebbe andato al Milan: «Se Berlusconi avesse visto il mio Pescara prima del Parma sarei stato io lallenatore del Milan. Sacchi? Lo vedrei bene in uno spot pubblicitario, con un tubetto del dentifricio in mano e con il suo bel sorriso: provate la pasta del trainer». Galeone, in fondo, è questo, da tenere di fianco, come Prévert, ma rileggendolo soltanto nei momenti dei diversi pensieri. Cosa che i galeonisti, un po come gli zemaniani, i sacchisti, i trapattoniani, oggi anche i manciniani, invece fanno, per esibire chissà quale inedita, unica filosofia di vita e di football, per insegnare come si debba stare al mondo.
Disse, un giorno, Galeone: «Oggi in panchina ci sono i fanciulli in carriera. Parlano in tivvù e dicono tutti le stesse cose. Sembrano usciti dalla fotocopiatrice». Come certi scritti su di lui.
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