Un progetto italiano ridà un po’ di luce a Kabul

In un laboratorio cofinanziato dalla Cooperazione e dalla Cri le donne afghane imparano un mestiere e a leggere

Fausto Biloslavo

da Kabul

Una donna ha vissuto come i topi, rintanata sottoterra, per scampare alla sanguinosa guerra civile fra mujaheddin, e un’altra vive con un marito che si droga, la picchia e le ruba tutti i soldi, al punto che non ha cosa dare da mangiare ai figli. Altre ancora sono orfane, con familiari disabili a carico e tutte analfabete. Nel Centro di formazione femminile, in un misero quartiere periferico di Kabul, una cinquantina di donne afghane ha ritrovato una speranza per il futuro. Grazie a un encomiabile progetto di formazione professionale e di alfabetizzazione fortemente voluto da Susanna Fioretti, della Croce rossa italiana e cofinanziato dalla nostra Cooperazione.
«Unico esempio del genere in Afghanistan, dove le donne non solo imparano a leggere e a scrivere, ma anche ad assemblare lampade fotovoltaiche, a riparare telefoni cellulari, a tagliare e pulire gemme», spiega la Fioretti, un’innamorata di questo difficile Paese al crocevia dell’Asia.
Grazie ai 130mila euro del progetto è stata ristrutturata una piccola palazzina in uno dei distretti più degradati di Kabul. In ogni piano c’è un laboratorio dove le donne imparano un lavoro utile, che da novembre entrerà nella fase commerciale e servirà loro a sostenersi da sole. «Tolo e sham», aurora e alba, è il settore elettrico-fotovoltaico, che impegna le donne in un’idea vincente per l’Afghanistan, Paese senza elettricità. Trasformano grandi lampade a olio in moderne lampade a batteria, con una potenza di 150 watt senza ricarica per cinque ore, alimentate da un piccolo pannello solare. I tedeschi, che addestrano la polizia afghana, stanno testando una ventina di queste lampade sulla tortuosa strada Kabul-Jalalabad, nei posti di controllo per la sicurezza, dove non arriva la corrente.
«All’inizio non è stato facile convincere i responsabili del quartiere, di etnia pasthun, molto conservatori, all’idea di far lavorare le donne fuori casa. Non fidandosi degli occidentali, pensavano che volessimo mettere in piedi un giro di prostituzione», spiega Pietro de Carli, responsabile della Cooperazione italiana.
Nel seminterrato è stato ricavato un laboratorio per la lavorazione di pietre preziose, come i lapislazzuli, di cui l’Afghanistan è ricco, che normalmente vengono rifiniti in Pakistan. Le donne, coperte dal velo, lavorano su macchine importate dall’India e producono collane, orecchini, anelli di ottima fattura. «Il periodo più buio della mia vita fu quello dei talebani ­ racconta Fauzana, appena maggiorenne ­. All’inizio mi sembrava un sogno imparare un mestiere. Adesso taglio le gemme e il sogno è diventato realtà».
Un’ora e mezzo al giorno è dedicata all’alfabetizzazione, e nel Centro è stato ricavato un mini-asilo che ospita 25 bambini, figli delle donne che lavorano al progetto. Al piano superiore altre donne riparano i telefoni cellulari, diventati uno status symbol a Kabul.
«Durante la guerra fra mujaheddin (negli anni ’90, ndr), chi aveva soldi scappava in Pakistan ­ racconta Saleha -. Noi siamo poveri e abbiamo vissuto sottoterra come i topi, per scampare ai razzi e ai combattimenti».
Un altro settore di microimpresa del Centro femminile riguarda la ristorazione e il catering. Se ne occupa Maria Rubino, la moglie del responsabile della Cooperazione, che insegna alle afghane igiene alimentare e pure la cucina italiana.

«All’inizio era dura, si insultavano fra loro se qualcuna era troppo “scoperta” ­ dice la Rubino ­. Dovevo accompagnarle a fare la spesa, perché i venditori le costringevano a comprare roba mezza marcia. Le afghane, ovviamente, non osavano protestare con gli uomini, ma io sì».

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