Roma - Ora che la sperduta ma ridente Mirabello pare investita di una missione salvifica per le sorti italiane (a tanto siamo ridotti), come minimo laggiù domenica Fini dovrà fare il discorso del secolo, il suo discorso della montagna agli apostoli del finismo, anche se disgraziatamente a Mirabello di montagne non ce n’è ma solo pianura nel raggio di 50 chilometri, però pazienza, contano le parole non l’orografia. Chiarirà tutto, siamo certi, ha solo aspettato il proscenio adatto per cotanto dispiegamento di verità dopo il fango meschino che lo ha investito. Mirabello, Mirabello, Mirabello, ma che bello il ritornello. Il silenzio agostano sarà stato solo un’abile introduzione per l’epifania settembrina del Giusto. Che dirà Fini a Mirabello? È l’enigma di questa fine estate italiana, insieme al mistero delle mozzarelle rosa e blu e all’anello di fidanzamento della Canalis. A dire il vero, di cose da dire Fini ne ha parecchie. Potrebbe parlare per due o tre ore senza interruzione. Un lungo racconto, da Fiuggi a Mirabello, svolte, frenate, inversioni di marcia e marce su Roma e poi su Montecarlo (sì ma, dilemma shakespeariano, con o senza cucina appresso?), tutto lo scibile finiano non ha che da svelarsi al trepidante pubblico, incarognito col Cav peggio che i dipietristi. Sui siti amici si prepara la trasferta, pullman, colazioni al sacco, alberghi convenzionati, tutti pronti alle 8 alla stazione del bus per andare a Mirabello e scoprire quanto è bello fare futuro (e libertà). Ma la Tulliani ci sarà? Con o senza il fratello ferrarista che lava l’auto al self? Altro mistero che aggiunge suspence all’attesa del discorso della pianura.
Da dove potrebbe partire il leader? Potrebbe abbordarla filosoficamente, se vuole, spiegando come gli è capitato, a lui che viene dal partito più legato alla Tradizione, di infatuarsi a tal punto del Futuro (che compare nel nome del gruppo, in quella della sua fondazione, nel titolo del suo osannato libro). Per scendere più a terra, gli basterà spiegare com’è stato possibile accorgersi, e così in ritardo, che tutto il pantheon della destra italiana era merce per robivecchi, e che al posto dell’identità italiana va messo il bene ultimo della cittadinanza extracomunitaria, al posto del sacro vincolo uomo-donna il più progressista patto civile tra omosessuali, al posto dello Stato etico il liberismo bioetico, al posto del contro-Sessantotto di Berretti verdi (che lo convinse a diventare un giovane post-fascista) il ’68 come «stagione di libertà e modernizzazione», al posto del revisionismo anti-comunista la più banale ma più comoda condanna del fascismo come male assoluto. Insomma come abbia fatto lui, laico-progressista-liberista, a ritrovarsi per una quarantina d’anni in mezzo a tradizionalisti-conservatori-statalisti come quelli del Msi prima e poi di An, e farsi anche eleggere loro capo, arrivando ad allori inimmaginabili per le fogne in cui erano abituati, Palazzo Chigi, la Farnesina, la sedia più alta a Montecitorio. Come ha fatto, lui che fu indicato e promosso da Almirante, a non accorgersi decenni prima che il leader Msi era capace di proferire «frasi razziste vergognose», come ebbe a rivelare Fini solo due anni fa.
Poi, scorrendo in avanti negli anni, potrebbe toccare il tasto ora più sensibile, Silvio Berlusconi, il nome che tra tanti (anche improbabili) non viene mai citato nel suo lungimirante saggio sul futuro della libertà, malgrado Berlusconi fosse pur sempre il numero uno del partito di cui, mentre scriveva quelle pagine, Fini era ancora il numero due.
Arrivato a metà discorso, in una Mirabello ormai Comune deberlusconizzato, Fini racconterà, ne siamo certi, il travaglio interiore che in breve tempo, solo una quindicina d’anni, lo ha portato ad abbracciare Berlusconi e poi ad accorgersi che era un despota, malgrado Berlusconi sia lo stesso di sempre. Già che c’è, a quel punto, potrebbe spiegare che ci faccia suo cognato nella casa lasciata in eredità ad An e poi venduta al ribasso non si sa bene neppure a chi. Siccome sarà il discorso della svolta, Fini dipanerà le nebbie che avvolgono ancora lui e la nuova famiglia, i loro contratti in Rai, le insistenze per dare al cognatino uno straccio di contratto da 1 milione di euro col servizio pubblico, perché è vero che siamo laici, ma anche cristiani, e la famiglia è sempre un’istituzione da tutelare. Visto che il pubblico finiano sarà infervorato, dopo tanti colpi bassi dei falchi al soldo di Arcore, Fini spazzerà via le illazioni sui «minimi garantiti» chiesti in Rai per il giovane ferrarista di famiglia, la partecipazione di mamma Tulliani in una società di produzione tv appena nata, e tutto il resto, così scrollandosi di dosso il fango cadutogli ingiustamente addosso.
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