"Pronto alla guerra e all'amore"

"Pronto alla guerra e all'amore"

SANDERS A lungo, ho creduto di cavarmela senza fragori. Appartenevo a quella generazione fortunata che avrebbe avuto vent'anni alla fine del mondo civile. Ci avrebbero fatto il più bel regalo della terra: un tempo in cui i nostri nemici, che sono quasi tutti gli adulti, contano come il due di picche. Il vostro comfort, il vostro progresso, vi consigliamo di applicarli ai migliori sistemi di sepoltura collettiva. Vi assicuro che ne avrete un gran bisogno. Perché, lentamente, scomparirete da questo mondo, senza intendere nulla dello sconquasso, del frastuono, né delle torce che agitiamo. Ecco vent'anni, imbecilli, che nei vostri congressi preparavate il confronto tra la gioventù del globo. Ora siete soddisfatti. Abbiamo (...)

(...) reso possibile questo confronto noi stessi, un bel giorno, sui campi di battaglia. Ma voi non potete capire.

Questo affaraccio che stento a chiamare la mia vita, questo affaraccio è durato cinque anni. Tanto per cominciare sono rimasto assai deluso, nel '40, quando ho compreso che eravamo sconfitti. Non mi avevano allevato con simili idee. Prigioniero, lo sono stato fino al giorno in cui dei mentecatti hanno messo su delle radio clandestine. Che guaio! Sono evaso una settimana dopo. Allora, per scarsa immaginazione, mi sono unito alla Resistenza. Un anno più tardi, i miei compagni mi facevano entrare nella Milizia per preparare un assassinio politico. Mi avevano avvertito, mi avevano detto che sarebbe stato un compito ingrato. Ma ho incontrato ragazzi energici, tutto muscoli e ideali. Gli inglesi avrebbero vinto la guerra. Il blu marino mi si addice. I viaggi formano la gioventù. Parola mia, sono rimasto.

Ora, ho indossato un'uniforme più umana, quella degli Alleati. Dunkerque, la Somme, queste storie risalgono almeno a un secolo fa. C'è una festa sulla piazza del villaggio. La musica della giostra dei cavalli mi rompe i timpani. La polvere acceca i bambini. Mi acceca. Non è stato il caso a portarmi in quel primo corpo d'armata francese. Ho sbagliato, lo so, e schiumo di rabbia. La guerra del '39 era idiota, la Resistenza mezzo matta; quanto alla Milizia, insomma, andava mica bene. Dunque morirò in questa campagna, sarà molto più semplice. Morirò facilmente. Ora che sono tutto solo, posso confessarlo: odio la violenza. È rumorosa, ingiusta, trafficata. Ma ancora non vedo chi potrà rinfacciarmela. Certo non i democratici, i più chiassosi fra gli uomini. Per la giustizia, ci credono. L'hanno vista tante volte, il sabato sera, al cinema.

***

Per mostrare come sono divenuto assennato, c'è solo da chiudere gli occhi. Allora gli eventi avanzano in fila. Li riconosco mentre passano e, umilmente, li saluto, perché sono monotoni, come le pozzanghere su cui camminiamo di sera. Ma, attenzione: chinando la testa vi si può distinguere il riflesso di una stella. Così i nostri gesti più semplici rincorrono i segni venuti da lontano.

Alle cinque, i miei compagni si sono alzati. Alle dieci, sono venuti nel fienile per esaminare la mia tracheite. A mezzogiorno, mi hanno riportato il proclama del colonnello: il sedicesimo ussari non tarderà a scontrarsi col nemico. Sghignazzano tutti. Ho fatto un purè disgustoso con il latte condensato, la cingomma, un po' di mais, un uovo e un goccio di calvados. Mi hanno guardato mangiare inorriditi. Nel pomeriggio, Florence è passata nella sua jeep. Peccato sia l'amante di O'Reish, quell'ufficiale ottimista che s'immagina vinceremo la battaglia di Jena, la settimana prossima. Ha un'indole irrequieta, lei, che non mi spiace affatto. E poi questa irrequietezza per il colonnello è dannosissima. È evidente che lui vorrà ricoprirsi di gloria. Quando lo vedo, ho voglia di dargli qualche buffetto sulla nuca, affettuoso, sì, piuttosto affettuoso. So bene come stanno le cose, ci sono passato. Avevo diciassette anni e mi infuriavo perché mia sorella non mi prendeva sul serio. Mi sono arruolato. Non ne valeva la pena. I tedeschi ci hanno schiacciati con violenza e ci siamo ritrovati a Dunkerque. Allora, abbiamo compreso la nostra sventura: eravamo in provincia. Nel frattempo, un giovane aitante dai capelli impomatati e di sentimenti cristiani, che si chiama Bernard Tisseau, era molto più furbo. Sposava mia sorella, poi aspettava tranquillamente una guerra vittoriosa. Per esempio questa.

L'ho appena incontrato, il cognato paziente. Come dice lui stesso, che non sia un intellettuale non significa che non sia intelligente... Del resto l'intelligenza, un maresciallo del mio squadrone, Dio e io stesso, sappiamo bene che non esiste.

Sono tornato sulla piazza. Siccome un cretinetto mi ha pestato i piedi, l'ho preso per il collo e gli ho spiegato un paio di cose: in primo luogo che non bisogna mai spingere uno più grosso, perché, a, è scortese, b, ci si chiama Gastone, c, cercando bene se ne trovano e come di meno grossi. In secondo luogo, gli ho dimostrato che un gancio alla mascella è persuasivo a suo modo. Il caporale Casse-Pompons è passato davanti a noi proprio in quel momento e non ha visto nulla. Peccato, perché mi odia cordialmente.

Tutto questo non mi ha impedito di ascoltare la musica della giostra. Naturalmente, ho pensato a Stravinskij e alla danza dell'Orso, diversi cavalieri la suonavano sotto i miei occhi, rossi, sgomenti. Questa regione è piena di ragazze. Spuntano da tutti gli alberi da frutto. Non si può dire che siano brutte. Sono brutte, ma della Lorena e questa parola è tanto graziosa che a loro bisogna sorridere.

Io non lo faccio. Mi è scappato un sorriso perché due ussari si contendevano Germaine, la cameriera del caffè, una ragazzona fiacca e bella, ma va detto che è ripugnante, per via del suo nome. Che fantasia, pur di trovare un pretesto per azzuffarsi! Potrei capire se si trattasse di un'attrice famosa o della regina Maria Antonietta. Queste divinità scuotono la maggior parte degli uomini: è piacevole, impellente tradire l'umanità andando a letto con Marlene Dietrich. Ma quell'umile cameriera! Quando gli abitanti del pianeta saranno un po' più esigenti, mi farò naturalizzare essere umano. Intanto, preferisco rimanere fascista, anche se è stravagante e faticoso.

Quegli imbecilli, con la loro lite, mi hanno rovinato la festa. Cominciavo a inquadrarla. Non era più così vera, cosa necessaria per una festa. Un incantatore dal lungo cappello a punta, chiamato Stravinskij, l'aveva spostata in un altro paese dov'ero il solo a osservare, dove non esistevo per nessuno. Ora, ho perso la fiducia. A passo lento, ho camminato lungo un ruscello nero che attraversa il villaggio. Dei grossi pezzi di pane galleggiano vicino alla riva e i nostri ufficiali s'indignano perché a certe cose ci tengono. Non è male, quell'acqua. Vi si scorge la nostra essenza, il nostro sudiciume, e quei notevoli sputi rotondi che i contadinotti guardano con ammirazione quando i bretoni del reggimento li lasciano partire dalle labbra. Eppure, basta chinarsi, si distingue il proprio volto. È l'altra faccia del volto, bisogna capirla. È cupa, certo, e triste. Ma non si annoia.

Veglia sui nostri piaceri e le nostre disgrazie. Li cova con un occhio che sa tutto in anticipo. Se le scagliamo una pietra perché siamo stufi della sua rassicurazione, ebbene, fa nulla. Le increspature la circondano come un'aureola di ragione e di virtù.

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