È molto bello sentire ogni giorno tante analisi sulla drammatica crisi dei mercati finanziari in attesa che il Congresso americano approvi il piano Paulson. Resta, però, uno sgomento di fondo. Quanti oggi spiegano le ragioni del crac finanziario sono molto spesso gli stessi che appena qualche anno fa ci ammannivano sui rischi che correvano i mercati e l’economia in genere se si eccedeva in regolamentazione.
Molti tra questi erano ieri, e lo sono oggi, consulenti autorevoli delle grandi banche d’affari, le maggiori responsabili del disastro accumulato in anni di spavalderia finanziaria. L’ultima lezione in ordine di tempo l’abbiamo sentita al convegno della fondazione Courmayeur da Domenico Siniscalco, vicepresidente di Morgan Stanley International. Chi ci segue da tempo sa che non siamo adusi al servo encomio ed al codardo oltraggio, ma ci piacerebbe leggere o sentire da alcuni autorevoli economisti e politici un’assunzione di responsabilità culturale. Gli eccessi della finanziarizzazione dell’economia mondiale erano noti anche a chi, come noi, ha fatto solo le scuole serali e che da queste colonne ha più volte gettato l’allarme sull’industria del danaro fine a se stesso. Se chiediamo a tutti di fare oggi un’autocritica è perché siamo convinti che solo così ciascuno può dare un contributo di idee per risalire la china. Siniscalco scarica tutte le responsabilità sulla Fed americana e sugli altri «regulator» dei mercati (Consob e similari) sostenendo, tra l’altro, che la bolla macroeconomica è legata agli squilibri «tra un’America che consumava troppo e un’Asia che non consuma abbastanza». Silenzio assoluto sulle responsabilità delle banche d’affari (ma non solo) che hanno utilizzato strumenti sempre più sofisticati e sempre più volatili per produrre col danaro altro danaro, tralasciando le necessità dei protagonisti dell’economia reale. Era naturale ad esempio che due miliardi di persone (Cina ed India), oggi produttori a basso costo, avevano e hanno bisogno di diversi anni per diventare consumatori di massa.
Uno squilibrio sotto gli occhi di tutti, sulle cui spalle, però, non possono essere messe le responsabilità della intollerabile finanza creativa alla quale si sono dedicati, tra gli altri, anche i ministri dell’Economia di vari Paesi. Detto questo, bisogna ora rimboccarsi le maniche per salvare la barca dal naufragio. Abbiamo già detto che l’iniezione di danaro fresco da parte delle banche centrali è stata una giusta operazione di pronto soccorso per i mercati e che il piano Paulson con tutti i correttivi del Congresso (un delitto comunque aver mandato a fondo solo la Lehman Brothers con un forte sospetto di interessi personali) è una medicina amara ma necessaria, ancorché non sufficiente. L’opacità in questi anni di larghissima parte delle banche ha innescato, infatti, una reciproca sfiducia che sta penalizzando in maniera intollerabile il credito alla produzione. Insomma, nessuna banca ha fiducia nell’altra perché non sa cosa si nasconde nel suo bilancio, e nessuna presta più soldi all’altra facendo scivolare così le imprese verso una crisi finanziaria e produttiva.
Bisogna subito rompere questa spirale. I grandi azionisti devono mettere mano alla tasca per ricapitalizzare i propri istituti di credito riducendo la propria attuale illiquidità ridando, così, fiducia all’intero sistema. Governo e Parlamento, in attesa di decisioni più ampie a livello europeo e considerando che noi più di altri abbiamo bisogno di riprendere a crescere, possono subito approvare agevolazioni fiscali significative per tutti gli aumenti di capitale che dovessero essere fatti nei prossimi dodici mesi.
Geronimo
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