Enrico Lagattolla
Telefono libero, allennesimo squillo scatta la segreteria. «È meglio che rispondi, testa di c..., figlio di p...». Il telefono è quello di Marco Marsili, autore e produttore discografico. La voce, di Loredana Bertè.
Frasi registrate tra il 3 e il 6 marzo del 2002 che sono valse alla cinquantacinquenne cantante calabrese una condanna in primo grado per minaccia e ingiuria, e una multa di 450 euro. Condanna confermata giovedì scorso dalla prima corte dappello di Milano, che ha però registrato la prescrizione del reato.
Questione di diritti dautore. La vicenda inizia nel febbraio del 1997, quando Loredana Bertè si presenta al Festival di Sanremo con Luna, brano che entrerà nellalbum Un pettirosso da combattimento.
Acquistandolo, Marsili si accorge che una canzone (Rap di fine secolo) è identica a unaltra (Rap) di cui lui stesso è compositore. Ma il suo nome non è indicato tra quelli dei coautori. Il produttore blocca la commercializzazione del disco, scatenando lira della cantante. «Ti prendo a calci, tu in quella canzone non hai diritti».
Sulle prime, Marsili sceglie il basso profilo. «Se smette - dice allimpresario della donna - faccio finta di niente». Ma le telefonate continuano. Ingiurie e urla, «ti ammazzo di botte» e «ti dò una coltellata». Per tre giorni, finché Marsili decide per la querela.
Con la sentenza del 2002, il tribunale riconosce la colpevolezza della donna. Ma il suo legale presenta ricorso. La Bertè - secondo il suo difensore - avrebbe aggredito verbalmente il suo ex collaboratore perché convinta di essere oggetto di un raggiro per estorcerle denaro. Tanto convinta da ribaltare laccusa.
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