Protagonisti o comprimari, la vita è soltanto una recita

«È un libro sorprendente», scrive Harold Bloom, il canonizzatore, e lo canonizza un gradino più in basso del Zuckerman Bound (pur essendone in sostanza la parte conclusiva, prima del recente Il fantasma esce di scena), mentre io metterei La controvita (Einaudi, pagg. 394, euro 21, traduzione di Vincenzo Mantovani) di Philip Roth un gradino più in alto degli altri, ma nella scala della letteratura restiamo in ogni caso ai piani alti, inutile discutere sul pianerottolo, e mi chiedo casomai per quale ragione l’Einaudi abbia aspettato il 2010 per pubblicare un’opera così importante uscita nel 1986.
Tra il New Jersey, una chiesa inglese del West End e una colonia israeliana, Roth sbroglia una matassa molto dostoevskijana, non solo perché racconta il tormento delle esistenze incrociate di due fratelli, lo stesso Nathan Zuckerman, scrittore, e Henry Zuckerman, dentista, ma perché affonda il bisturi, come ogni grande scrittore, nella mente e nella carne dell’identità umana e del suo doppio, dove la vita di uno dei protagonisti è il rovescio della vita dell’altro e lo stesso romanzo ribalta a sorpresa il punto di vista, denudando il ruolo dello stesso scrittore, uomo senza qualità e senza vita per eccellenza, il più infido falsario capace però di svelare le falsità altrui. «Tutto ciò che posso dirti con certezza», confessa Nathan, «è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio e non posso assoggettarmi alla buffonata dell’io. Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io. Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro».
Dall’inizio alla fine La controvita è un filo spinato teso tra due funerali, con al centro la pochezza delle illusioni umane, amore, ossessione, illusione, disillusione, malattia, morte. Nell’ineluttabile disgregazione di qualsiasi cosa, nel costante tentativo di uscirne, Roth affonda la sua scrittura spietata su massimi e minimi sistemi, perché il grande e il piccolo si confondono, nelle nostre vite, nelle nostre speranze, e l’intima pulsione di ogni uomo è determinata dalla sopravvivenza dell’autosuggestione nel credere in qualcosa, qualsiasi cosa.
Nella controvita che viviamo tentando di vivere una vita accettabile, senza accorgersene si può essere cardiopatici e morire sotto i ferri per non rinunciare al sesso con la propria amante (tematica ricorrente in molti libri di Roth), o per un’ossessione ancora più specifica come il sesso orale: si può «finire in questa cassa per amore di quella bocca», perché le grandi avventure della normalità sono «un’avventura banale e priva di originalità come questa», e dunque si può decidere di rischiare la vita per non rinunciare a un pompino, a una bocca. O viceversa si può cercare la propria via di fuga in una religione, per esempio nel cristianesimo o nell’ebraismo, vedendone la finzione di fondo, nella rassicurante codificazione delle etichette, come un grande gioco di ruolo, impersonando un goy, un galut, una shiksa, vivendo nella consolante distinzione tra giudei e gentili, nella contrapposizione inventata tra normalità e anormalità («Normale e anormale: ventiquattr’ore in Israele e ecco di nuovo quella distinzione»), e chiedersi, alla fine, cosa sia un ebreo, cosa sia un cristiano, cosa sia, in generale, la vita. Magari tagliando corto come Carol, normalissima compagna tradita e in fondo saggia: «La religione! Solo fanatismo, superstizioni, guerre e morte! Stupide sciocchezze medievali! Se demolissero tutte le chiese e tutte le sinagoghe per farne un campo da golf il mondo sarebbe migliore!».
Ci si può interrogare su cosa siano davvero i rapporti all’interno dei matrimoni, cosa resti della passione («anche la passione è tristemente nota per la sua durata»), quando si diventa estranei gli uni agli altri, perché tanto, simile all’io, all’amore, all’amicizia vivisezionati da Proust nella Recherche, anche per Roth «è l’infida immaginazione a creare ciascuno di noi: siamo tutti invenzioni reciproche, e ognuno di noi è un’evocazione evocatrice di tutti gli altri. Siamo tutti autori gli uni degli altri». O ancora cercare un senso nel contrario del sesso, nella tranquillità coniugale di una vita «normale», e mentre uno Zuckerman muore per un pompino, l’altro Zuckerman si proietta nella finzione opposta, un’altra fiction di salvezza, un altro rovescio della stessa medaglia contraffatta, un altro compromesso, un’altra controvita senza verità: «Se il marito fedele e devoto spasima per l’ardore erotico clandestino, io rovescerò le tavole morali: io sono disposto a morire per la vita familiare, per la paternità».


Comunque si nasca, comunque si viva, si tornerà di nuovo a riflettere su un funerale sottratto anch’esso alla tragicità («pensando a come da adulti si continua, come da bambini, a credere che quando muore qualcuno è una specie di trucco, che la morte non è proprio la morte, che il morto è nella cassa e fuori dalla cassa, che in un modo o nell’altro potrebbe saltar fuori da dietro la porta e gridare: - Ti ho fregato!»), un funerale riscritto due volte dove la storia viene nuovamente ribaltata nell’attesa di un capovolgimento narrativo e esistenziale che non ci sarà, perché «l’unico modo di fare un funerale è invitare tutte le persone che conoscevano il defunto e aspettare l’incidente: uno che di punto in bianco dica la verità. Tutto il resto è galateo».

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