«Provenzano? Un confidente dei carabinieri»

«La voce veniva da Catania, dal gruppo dei Mazzei. Ma poi si è diffusa in tutta la Sicilia. Molte persone mettevano in dubbio la sua integrità»

Gianluigi Nuzzi

da Milano

«All’interno di Cosa nostra serpeggiava una voce, vi erano dei sospetti che Provenzano fosse un confidente dei Carabinieri». Il giorno dopo le accuse di latitanza superprotetta mosse da Piero Grasso, il pentito Antonino Giuffrè rilancia. L’ex numero due di Cosa nostra, infatti, misura bene le parole e lascia il dubbio nell’aula bunker di Ponte Lambro che ospita a Milano il processo palermitano contro il direttore del Sisde Mario Mori e il colonnello Sergio De Caprio, il «capitano Ultimo». Entrambi sono accusati di favoreggiamento aggravato per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina nel giorno del suo arresto. E così la primula rossa di Corleone avrebbe passato informazioni all’Arma. Lo ripete ora Giuffrè, già capo mandamento di Caccamo, dopo i suoi primi racconti ai Pm nel 2002. L’anno prima, già l’aveva sostenuto il colonnello Michele Riccio quando puntava l’indice proprio contro Mori, accusandolo di aver stoppato il blitz del 31 ottobre 1995 per catturare Zu Binù nelle campagne di Mezzojuso.
L’uscita di Giuffrè è quindi dirompente, supera quel lento adagio sul «boss confidente» che dall’introduzione del pentitismo si ripete e insinua negli annali di mafia. Da Tommaso Buscetta che indicava Giuseppe Di Cristina, il boss di Riesi, a Giovanni Brusca che additava Tano Badalamenti. Riagganciandosi alle inquietanti ipotesi avanzate da Grasso, si trova magari spiegazione di una latitanza che da quasi quarant’anni si snoda polverizzando retate e indagini. Come le prime compiute alla fine degli anni ’60 dal vice questore Angelo Mangano. Provenzano sfila ogni rete. Si eclissa. Rinvigorisce il tacito consenso.
Stavolta però del chiacchericcio di mafia, Giuffrè ripesca parole affilate e diffuse pronunciate da chi «metteva in dubbio l’integrità dello stesso Provenzano». Dalla Sicilia orientale si era alzato il venticello. «Veniva da Catania - precisa il pentito - dal gruppo dei Mazzei». Giuffrè ne aveva parlato anche con Eugenio Galea, «che veniva mandato direttamente da Nitto Santapaola». Insomma, «ne parlavano un po’ tutti»; Provenzano un giorno gli chiese se credeva a queste voci e «siccome non ne avevo la prova, gli risposi “no, non ci credo”». Rapporti con le forze di polizia intessuti anche da Vito Ciancimino, «uno dei personaggi più importanti» per Provenzano. «Si diceva che Ciancimino - afferma il pentito - avrebbe avuto contatti con personaggi delle Forze dell’ordine per sistemare le cose all’interno di Cosa nostra». Una sorta di «missione» voluta dal superlatitante nel gennaio del 1993 per gestire la città dopo l’arresto di Totò Riina. Nel covo di quest’ultimo c’erano documenti? «Quando uscii dal carcere - risponde Giuffrè - Benedetto Spera mi disse che per fortuna nel covo non era stato trovato niente». Nemmeno la borsa. Nemmeno la borsa che «Riina portava sempre con sé, nella quale teneva biglietti, appunti sulle grandi riunioni e su quelle ristrette». Dove sia finita, però, Giuffrè non lo sa. Infine, è stato poi sentito l’imprenditore Giusto Di Natale, arrestato nel 1996 e oggi collaboratore dei Pm palermitani.

Ha ricostruito il periodo di custodia degli arredi di casa Riina, quando teneva in garage quadri d’autore, tra cui una veduta di Napoli del ’600, statuette di bronzo, argenteria, piatti, tutti imballati in cassette della frutta. Poi concordò con Giovanni Riina, figlio di Totò, il trasloco dei beni perchè non avrebbe saputo giustificarne il possesso.
gianluigi.nuzzi@ilgiornale.it

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