Cultura e Spettacoli

La provocazione Col dialetto i siciliani vantano unicità e universalità

STORICO Il titolo rimanda a Bagheria, che è la città di Renato Guttuso e del principe di Palagonia

nostro inviato a Venezia

«I popoli in ascesa non hanno dialetti» diceva Ennio Flaiano. Era anche il giudizio di Palmiro Togliatti, detto «il Migliore», che nel film Baarìa di Tornatore rimane perplesso di fronte all’idea di mandare in Urss in viaggio-premio e in viaggio di formazione il compagno Peppino: non ha istruzione, non è un intellettuale, non ha un cappotto... Era l’Italia del dopoguerra, l’età della ricostruzione e poi del boom, quando i dialetti erano ancora una realtà e l’italiano più di un’esigenza. Mezzo secolo dopo, il dibattito si ripresenta rovesciato di segno e può anche darsi che dopo tanto salire si senta il bisogno di trovare una pianura o magari di scendere un po’. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia siamo ancora un popolo giovane, ma siamo già un popolo stanco. Di sé stesso.
Baarìa, si sa, è parlato in siciliano e così lo abbiamo visto alla mostra di Venezia, con i sottotitoli, come fosse un film in lingua straniera. Si sa anche che dal 25 settembre prossimo, quando verrà proiettato nelle sale della penisola in modo capillare (sono circa 500 le copie che saranno immesse nel circuito cinematografico, una cifra record, di quelle che si usano per le megaproduzioni hollywoodiane), lo sarà in due edizioni. La siciliana, appunto, per gli spettatori al di là dello stretto di Messina, l’italianizzata per quelli del continente. Qua e là è prevista anche l’edizione doppia, perché ormai non ci facciamo mancare niente, mentre all’estero andrà l’originale con i sottotitoli, perché poi questa è l’Italia da esportazione che piace: un Paese arcaico e bruciato dal sole, languido e truce, dalle tinte forti, dalle donne belle, dove si mangia, si beve, si ride, si fa l’amore e ci si ammazza.
Baarìa è un film sulla Sicilia, anche se il regista ammonisce che in realtà è un film sulla provincia, che come tale è locale nel suo essere universale. Gli intellettuali siciliani hanno come vezzo quello di confondere le acque: rivendicano la loro singolarità, impasto di storia e di cultura che li rende unici, e però ci tengono a farti sapere che no, non è così, sono una cosa ma sono anche l’altra e in fondo il Pirandello di Uno, nessuno e centomila sta lì a dimostrarlo. Rimanda nel nome alla città di Bagheria, che è poi, fra l’altro, quella di Renato Guttuso, il pittore a cui si deve il quadro I funerali di Togliatti («picassata alla siciliana» definiva la sua arte Leo Longanesi) e del principe di Palagonia, quello della villa omonima popolata da figure umane che sembrano mostri e da figure mostruose che sembrano umane. Solo che la Bagheria odierna è un’altra cosa rispetto a quella di cinquant’anni fa o addirittura di un secolo fa (il film abbraccia un arco storico-temporale che dal primo Novecento arriva alla sua fine) e così è stata ricostruita in Tunisia. C’è qualcosa di strano in tutto questo, un po’ surreale e molto siciliano, ma la ricostruzione della memoria ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
Baarìa è un film corale, popolato di protagonisti grandi e piccoli. Ha una sua retorica dignitosa, il che non è un male, ma che però affonda le sue radici in una lettura della realtà isolana che è fuorviante e non aiuta a capire. Tornatore, che è stato in gioventù consigliere comunale del Pci, ci fa vedere una politica in bianco e nero, i comunisti puri e idealisti da una parte, i «forchettoni» democristiani e mafiosi dall’altra. Visto che dei primi, politicamente parlando, si sono ormai perse le tracce, bisognerebbe allora ammettere che l’isola in fondo la incarnano i secondi, per quanto in perenne mutazione, il che significa condannare la Sicilia alla dannazione senza scampo. Se così non è, bisognerà allora cominciare a dire che quella lettura è insufficiente e al fondo sbagliata e rifare i conti con la propria immagine.
Torniamo da dove siamo partiti. Il comunismo del «Migliore» era nazionalista nel suo internazionalismo, il che non era tanto il frutto truccato della dialettica marxista, ma la scelta accordata alla modernità a petto della tradizione. Il recupero delle radici, il localismo, l’esaltazione del particolare, sono venuti dopo, via via che la conquista del potere si allontanava e quell’Italia nazionale assumeva l’aspetto di un’altra Italia, nemica e lontana, corrotta dalla modernità stessa.
Il paradosso finale è questo qui, quello di un grande regista, già intellettuale organico e poi più o meno deluso, che si ritrova stretto fra la Scilla siciliana e la Cariddi italiana. Le due edizioni servono anche a questo, a scegliere non scegliendo.

«Sono siciliano con difficoltà» diceva Leonardo Sciascia.

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