Psicosi al check in

Un aeroporto fatto sgomberare per cinque barattoli di miele scambiati per trappole esplosive? Sì, ormai accade anche questo negli aeroporti americani. Si chiama psicosi. È un malessere piuttosto serio che deflagra nella testa di chi ha i nervi scossi. Una sindrome che ultimamente pare aver contagiato quegli agenti della sicurezza cui è demandato il delicato compito di controllare chi arriva e chi parte, cioè soprattutto chi parte. Sono quei signori e quelle signore in divisa azzurrina sui quali (ma sono in buona compagnia, tra Cia ed Fbi) ieri si è abbattuta l'ira del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, scandalizzato dalla figura da peracottari fatta il giorno di Natale, di fronte agli occhi del mondo, grazie a uno sbarbatello nigeriano che si imbarcò con un discreto quantitativo di combustibile nelle mutande su un volo per Detroit.
Stavolta, dopo il caos dell'altro giorno all'aeroporto di Newark, a due passi da Manhattan, per un passeggero che aveva inforcato al contrario un varco d'accesso, il marasma è andato in scena all'aeroporto di Meadows Field a Bakersfield, 160 chilometri a nord di Los Angeles.
A differenza di Newark, dove alla fine non si è saputo neppure con chi prendersela, nel senso che neppure attraverso le telecamere interne si è riusciti a scovare l'uomo che aveva fatto andare in tilt la macchina dei controlli, stavolta, si diceva, un «colpevole» c'è. Si chiama Francisco Ramirez, ha 31 anni, fa il giardiniere a Milwakee, e la sua colpa è stata quella di portare in valigia cinque bottigliette di Gatorade piene di miele. Come poi possano, cinque bottigliette di miele, essere scambiate per ordigni incendiari, è un mistero glorioso che solo dei controllori con i nervi a fior di pelle possono forse tentare di spiegare.
«Suspicious looking liquid», un liquido ambrato di natura sospetta. Questa la definizione che aveva fatto scattare l'allarme. Dunque se ne apre uno, con ogni cautela, due controllori sniffano, dicono che sa di roba chimica, avvertono sintomi di nausea e filano su un'ambulanza a sirene spiegate all'ospedale. Figuratevi la faccia del povero Ramirez.
Poiché tuttavia la psicosi obbedisce a leggi oggettivamente imperscrutabili, e si nutre, gonfiandosi come una rana toro, delle voci più incontrollate (anzi, più incontrollate sono meglio è), ecco che a qualcuno dei viaggiatori prossimi al bagaglio dell'uomo sospetto era parso addirittura di vedere come un «fumetto» levarsi dalla borsa sospetta, come di un ordigno, insomma, che cuoceva a fuoco lento.
Una roba da ridere, detta così. Ma non per i controllori degli scali americani, che già avevano fama di essere i meno duttili e anzi i più ottusi del mondo (ma una certa tetragona, ottusa testardaggine nel rispetto delle procedure standard è esattamente quello che ci vuole, per evitare cattive sorprese). Insomma, per non saper né leggere né scrivere, le autorità dello scalo ci hanno messo tre secondi per decidere l'evacuazione, lo sgombero, il fuori tutti. Una procedura automatica, appunto.
Come è finita? Con la discesa in campo di una «task force» formata da alcuni vicesceriffi della Kern County, specialisti dei Vigili del fuoco e agenti dell'Fbi.

Riuniti in conclave, odora tu che odori anch'io, alla fine uno ha deciso di fidarsi del giardiniere Ramirez che da ore si strappava i capelli giurando che era miele. «Sì», è stata alla fine (cinque o sei ore dopo) la risposta unanime del sinedrio di ispettori. «Il signor Ramirez ha ragione». È una storia da pazzi, no? Speriamo che non la raccontino a Mr. Obama.

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