Sulla proprietà delle reti (luce, gas, telecomunicazioni) e sul ruolo del nuovo fondo per le infrastrutture costituito dalla Cassa depositi e prestiti, da fondazioni e da banche, Francesco Giavazzi ripropone dalle colonne del Corriere leterno problema. È meglio il pubblico o il privato nella gestione di parti importanti delleconomia reale? La sinistra radicale rilancia una visione fortemente pubblicistica, i liberisti ritengono, con altrettanta assoluta certezza, che solo il privato può e deve gestire tutti i settori vitali per leconomia, a cominciare dalle reti e dalle infrastrutture. Sbagliano entrambi perché ovunque cè lesagerazione e si cade nellerrore.
Ma andiamo con ordine. Va ricordato a tutti, ed in particolare ai liberisti-sprint, che negli anni Settanta e Ottanta i partiti di governo dellepoca fecero quadrato sul piano culturale e politico per difendere leconomia di mercato dallattacco furibondo della sinistra comunista sostenuta anche da alcune compiacenze accademiche. Oggi accade lesatto contrario. Chi ieri era contro il mercato oggi è, come si dice con brutto termine, un «mercatista». Una sorta di nuova ideologia totalizzante che fa del mercato un fine e non un mezzo e al quale subordina tutto e tutti e dal quale esclude qualunque presenza pubblica accettandone, con sofferenza, solo lattività regolatoria. E ancora una volta ambienti accademici sostengono lassolutezza di questa tesi.
Il mercato è fonte insostituibile per la crescita e lo sviluppo dei singoli Paesi e del mondo intero. Il mercato è anche la garanzia delle libertà singole e collettive non solo sul piano economico, ma su quello culturale e politico. Il mercato è inoltre costituito da forze che puntano giustamente al profitto ritenuto lunico obiettivo da perseguire. Daltro canto non può essere messo sulle spalle del mercato e dei suoi attori lequilibrio di un benessere diffuso e collettivo. Il mercato è, dunque, nellinteresse delle società e del loro sviluppo. Linteresse pubblico, però, è qualcosa di più ampio che non può fare a meno del mercato ma non si esaurisce nei suoi protagonisti privati. Come si sa il mercato è neutrale rispetto alla natura della proprietà ed allora perché il pubblico non può agire, in alcuni settori, come un attore del mercato rispettandone leggi e regole? Se questa domanda viene posta, poi, in un Paese come lItalia nel quale la cultura della grande azienda è rara mentre forte è la capacità innovativa e competitiva della media e della piccola impresa, la risposta non può che essere una.
Non è scandaloso che lo Stato diventi anchesso, parzialmente e in settori particolarmente significativi, un attore del mercato. Qualche esempio? Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri hanno come azionista di riferimento lo Stato e sono grandi aziende che innovano e producono profitti, rispettano le leggi del mercato ma sono anche attente agli interessi internazionali del Paese. Sullaltro versante, come cartina di tornasole, cè anche qualche esempio in negativo. I crac Parmalat e Cirio, con pesanti perdite per i piccoli risparmiatori, sono figli di quelle «collusioni private» tra finanza, industria, agenzie di rating e banche che si consumano ogni giorno nel mercato. Se il pubblico avesse confermato alla guida di alcune banche manager autorevoli condannati in primo grado per reati finanziari e le cui aziende sono state costrette a risarcimenti miliardari per le truffe consumate (vedi Parmalat) cosa mai avrebbero detto quelle voci liberiste che danno quotidiane lezioni di moralità? Di tutto e di più. Ed invece in questa occasione il silenzio è stato assordante.
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