Pupi Avati: "A Venezia mi invitano e poi mi fanno fuori"

Lo sfogo del regista contro Mueller che, dopo avergli promesso la presenza in concorso, lo ha scalzato all'ultimo momento: "Sono davvero deluso". A sorpresa spunta il film di Ascanio Celestini

Pupi Avati: "A Venezia mi invitano e poi mi fanno fuori"

«Adesso, al telefono, con lei rido, ma, in realtà, ne sto soffrendo molto. E non è un dolore piccolo. Né professionalmente, né umanamente...». È un Pupi Avati amareggiato quello che accetta di parlare della clamorosa esclusione del suo film, Una sconfinata giovinezza, fino a ieri dato per certo in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Invece, è stato scalzato all’ultimo momento da La pecora nera di e con Ascanio Celestini, il comico e attore di teatro ospite fisso di Serena Dandini su Raitre, all’esordio come regista cinematografico.

Una bocciatura pubblica. Una delusione clamorosa. Una storia che ricorda, anche se in versione ridotta, la vicenda che proprio Avati aveva raccontato in Festival, l’amarissimo film con Massimo Boldi all’esordio drammatico, presentato al Lido nel 1996 e ispirato all’episodio realmente accaduto due anni prima a Walter Chiari. Alla cerimonia della premiazione il protagonista di Romanzo era scattato in piedi raggiante, sicuro di aver vinto la Coppa Volpi come migliore attore ma, al momento dell’annuncio, la madrina della serata aveva chiamato Carlo Delle Piane (interprete, tra l’altro, di Regalo di Natale, dello stesso Avati). Corsi e ricorsi. Il cinema che replica la realtà che rincorre il cinema. «La mia di oggi però non è una delusione così cocente», ammette ora il regista bolognese, «ma alla mia età essere bocciati pubblicamente non fa comunque piacere».

Così, sarà l’opera prima di Celestini a completare il quartetto degli italiani in gara al Lido, composto da Noi credevamo di Mario Martone, La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo e La passione di Carlo Mazzacurati. E se il direttore della rassegna Marco Müller sottolinea che ad Avati era stata offerta una serata fuori concorso, «vale a dire una delle posizioni più ambite della Mostra», e ribadisce che «il grande Pupi» è «uno tra i cineasti italiani che da sempre amiamo», tuttavia l’incidente è destinato a complicare, se non proprio avvelenare, la vigilia della 67ª edizione della kermesse veneziana. Ancora Avati: «Sono certo che non ci sono stati fraintendimenti perché ho sufficiente esperienza per comprendere se un mio film piace o no. Il rammarico non è l’esclusione a vantaggio di un altro regista contro il quale non ho alcun motivo di risentimento, bensì il fatto di aver perso la partita ancor prima di giocarla. Sono addolorato perché non mi spiego il comportamento di persone che conosco e stimo da tempo, ma che stavolta si sono dimostrate ambigue». E la serata fuori concorso? «È una proposta nobilissima, ma che si fa a chi abbia già vinto il Leone d’oro o un premio importante. No, il mio ritiro è irremovibile».

Storia di una non più giovane coppia senza figli, Una sconfinata giovinezza, prodotto da Rai Cinema con la DueA, narra il rapporto d’amore vissuto con gli occhi e il cuore della moglie (Francesca Neri) quando si accorge che il suo uomo (Fabrizio Bentivoglio) comincia a perdere la memoria e pian piano regredisce alla ricerca della sua infanzia. Visionato qualche settimana fa da Müller ed Enrico Magrelli che avevano manifestato il loro vivo apprezzamento, il film era stato dato per sicuro in concorso alla Mostra. «Mancava la valutazione della Commissione dei selezionatori, ma sembrava si trattasse di una semplice formalità. Se così non fosse stato, considerato che sono un autore prolifico, si sarebbe potuto dire che la pellicola non convinceva e che conveniva attendere un nuovo lavoro».

Due anni fa, per iscrivere alla gara Il papà di Giovanna sempre di Avati, Müller aveva dovuto imporre una deroga allo statuto della Mostra che fissava a tre il numero massimo di film italiani ammessi. Poi, con il premio assegnato a Silvio Orlando come migliore attore e gli ottimi incassi nelle sale, l’opera del cineasta bolognese si era confermata come la più riuscita della spedizione autoctona. Stavolta i quattro film in gara ci sono già. Più che mancanza di sincerità non sarà stato un cambio di valutazione in corso d’opera? «Se fosse così, sarebbe accettabile. Ma è la cronologia dei fatti ad escluderlo. Dopo la pubblicazione dei quattro titoli, tra i quali il mio, il giornalista di Repubblica che li aveva anticipati ha ricevuto la telefonata della produzione del film di Celestini che garantiva sulla loro partecipazione alla Mostra». Dunque, c’era un film di troppo.

«Sa qual è il mio vero peccato? Essere un autore troppo prolifico. La creatività e la voglia di lavorare anche a costo d’indebitarsi infastidiscono. In altri Paesi, i registi prolifici come me, Woody Allen o Clint Eastwood, per esempio, che fanno più di un film all’anno, vengono protetti e sostenuti. In Italia, invece, s’insinua il sospetto: chissà che cosa c’è sotto. Niente, solo amore per il cinema». Non crede che la sua rivincita si consumerà quando il film uscirà nelle sale? «Me lo auguro, ma la bocciatura di Venezia non è un bel biglietto da visita».

Chi lo sa, magari il grande pubblico può essere attratto proprio per questo. «Già, forse potremmo promuoverlo proprio così: ecco il film bocciato dalla Mostra di Venezia».
Promossi e bocciati dei festival. Corsi e ricorsi.

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