PUSKIN Il bisnonno nero educato a corte dallo zar

Era uno schiavo africano che da bambino conquistò Pietro il Grande e divenne condottiero e uomo di grande cultura, a contatto con gli intettuali europei. La sua vicenda romanzesca raccontata dallo storico inglese Hugh Barnes

Mosca
Quando nel febbraio del 1831 Alexander Puškin e Natalie Goncharova decisero di sposarsi a Mosca, non a caso presero in affitto un palazzo sulla Arbat. La via era allora il centro culturale e un po’ bohémien dell’omonimo quartiere nonché dell’intera città, e tale sarebbe rimasto per tutto l’Ottocento e il secolo a venire. Negli anni Sessanta del Novecento Anatolij Rybakov ambientò qui il suo libro più famoso, I ragazzi dell’Arbat, appunto, che raccontava il decennio delle purghe staliniane, «il più tragico nella vita del nostro popolo», attraverso una via, un gruppo di giovani che la frequentavano, i loro amori, la politica, la dittatura. Per vent’anni la censura ne impedì la pubblicazione e solo nel 1987 il romanzo vide la luce. Due anni dopo cadde il Muro, andò in pezzi l’Urss e l’Arbat, che per i moscoviti era un po’ Montmartre e un po’ il Greenwich Village, è oggi la via del turismo alternativo e/o commerciale, tatuatori e bancarelle, paccottiglia e boutiques grandi firme, ristoranti alla moda e self service, teatri e locali underground.
La casa-museo di Puškin è al numero 53, un edificio neoclassico a un piano color acquamarina, ed è l’unica delle sue varie dimore a essersi conservata fino a noi. È qui che si può ammirare la scrivania-scrittoio del poeta e la curiosa statuetta in bronzo che vi campeggia: rappresenta un negro, il gomito destro appoggiato a un’ancora con tanto di calumo annodato al suo anello con una gassa, al suo fianco due porta-inchiostro a forma di balle di cotone. Gliela aveva regalata l’amico Pavel Nashchokin, esponente della più pura nobiltà russa, un omaggio a quel 1831 così significativo per la vita del poeta. Nel bigliettino che accompagnava il dono Pavel aveva scritto: «Ti invio il tuo antenato: i calamai dimostrano la sua lungimiranza». Un mese prima il poeta aveva spiegato per lettera al capo della polizia segreta zarista perché aveva dato del «clown» all’autore di un articolo in cui si ironizzava sui suoi antenati: «un principe negro o un negro comprato da un marinaio per una bottiglia di rum? Chi penserebbe mai a un poetastro consapevole della seconda ipotesi?».
La «negritudine» fu per Puškin fonte di onore e di dolore. Celebrata nell’Evgenij Onegin, «tempo è ch’io lasci i tristi lidi/ e in un meriggio meridiano/ sotto un sole africano/ la buia Russia io sospiri», rivendicata nell’incompiuto Il Negro di Pietro il Grande, l’incertezza intorno ai natali di Abram Petrovich Gannibal, bisnonno del poeta, era occasione troppo ghiotta perché i suoi nemici, rivali sentimentali, scrittori invidiosi, politici ostili, se la lasciassero sfuggire. La suscettibilità di Puškin, la sua altera dignità, facevano il resto, e la morte in un banale duello ben architettato è lì a ricordarci il lato debole di una personalità così scintillante.
Nel bronzetto di Nashchokin, Puškin vide come per incanto racchiuso il perché di un duplice orgoglio. Non solo quel negro che sotto Pietro il Grande era arrivato al grado di generale dell’impero, aveva girato l’Europa, scritto libri, era il suo degno antenato; ma nel «montare la guardia» a quelle balle piene di inchiostro egli anticipava la consapevolezza di avere come discendente il più grande poeta del suo tempo. Era, insomma, una duplice fierezza e il prendere atto che nell’unicità dell’uno risiedeva l’unicità dell’altro. Ma chi era veramente Gannibal?
Già dopo la tragica fine di Puškin ciò che, ancora lui vivo, era dato per scontato, ovvero la negritudine di Gannibal, cominciò a essere ufficialmente «sbiancato». Non era possibile che il poeta nazionale per eccellenza, il cantore dell’anima russa ma anche il simbolo della modernità potesse discendere da un abitante dell’Africa nera, uno schiavo, per giunta. Per quanto proveniente da quel continente era necessario che i suoi lineamenti si avvicinassero in qualche modo a ciò che per la mentalità dell’epoca era la normalità, non la «mostruosità»: Gannibal poteva essere tutt’al più abissino, e naturalmente, e quindi, un principe cristiano. Non era del resto l’Abissinia che la tradizione biblica indicava come sede del Paradiso terrestre? E non era forse San Pietroburgo il Paradiso del Nord? E ancora: non era Mosca la terza Roma, il cuore ortodosso di una Cristianità che in essa trovava le ragioni della riscossa e del trionfo prossimo venturo? Quale maggiore affinità elettiva e superiorità d’animo e di comportamento si poteva trovare di un nobile, di lineamenti e di spirito, battezzato nel nome del Signore, soltanto un po’ più scuro di pelle, e che trovava la sua strada alla corte del «piccolo padre»?
Poiché non esistevano ritratti di Gannibal, gli esegeti puškiniani stabilirono che il dipinto in alta uniforme all’ultimo piano della casa pietroburghese del poeta, in via Moika 12, all’angolo del Palazzo d’Inverno, fosse quello giusto. I lineamenti erano quelli di un uomo bianco, soltanto di colorito più scuro, e quindi... Quanto alle decorazioni, esse ben si confacevano a chi aveva terminato la sua carriera come generale in capo dell’esercito e aveva servito sotto otto zar. Per più di un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla fine degli anni Settanta del Novecento fu quello il volto di Abram Petrovich Gannibal, bisnonno di Puškin. Poi, nel 1980, il quadro volò all’Hermitage per un restauro conservativo e lì cadde tutto. La pulizia delle decorazioni rivelò che una di esse, l’Ordine di San Giorgio, era stata istituita da Caterina di Russia nel 1769, quando il nostro eroe era in disgrazia e esiliato. Quanto all’altra, l’Ordine di Sant’Andrea, non ne era mai stato insignito. Ma così come tornarono alla luce i veri colori delle medaglie, venne in superficie anche il vero colore del volto: scuro per la sporcizia accumulatasi nel tempo e non per questioni di razza, era il viso tedesco del generale Zakomellsky, eroe della seconda guerra turca...
Gannibal The Moor of Petersburg è il titolo della straordinaria biografia (Profile Books) scritta da Hugh Barnes, giornalista e sovietologo. Straordinaria perché da un lato, con un lavoro certosino, il suo autore è riuscito a riallacciare alcuni dei fili che per partito preso, imperizia, negligenza erano stati lasciati cadere o avevano finito per attorcigliarsi, e dall’altro perché la materia in sé, ovvero la vita del protagonista, è così unica e così particolare da meritare a pieno titolo quell’aggettivo.
Allora, ricominciamo da capo: chi era veramente Gannibal? Scartata con dati di fatto la pista abissina, l’origine più probabile rimane quella di Logone, nel Ciad. È da questa regione, del resto, che viene la parola Fummo che figura nel blasone di famiglia sopra l’immagine di un elefante e che, per l’appunto, significa «patria». Nato alla fine del 1600, il futuro Abram Petrovich finì in schiavitù o venne preso come ostaggio, il particolare non è certo, e in fondo secondario, all’età di sei anni e portato a Costantinopoli. Nobile di origine, per sua ammissione, alla corte del Sultano di Turchia fu adocchiato dall’ambasciatore russo, il conte Pyotr Tolstoi, che decise di riscattarlo e farne omaggio allo zar Pietro il Grande. Impegnato nel compito di europeizzare la Russia, Pietro vide in quel bambino di colore la fonte di un esperimento e la prova provata dell’esempio che andava cercando. Alla resistenza passiva della corte e del popolo, contrari al cambiamento, egli oppose la scalata sociale di chi veniva dal continente meno conosciuto e più misterioso del tempo: prese Gannibal, lo adottò, gli diede un nuovo patronimico e la migliore educazione possibile in quella San Pietroburgo proprio allora costruita sull’immagine delle grandi capitali europee. Non contento, lo portò con sé in Francia, alla corte di Luigi XV, lo fece incontrare con le personalità dell’epoca, da Montesquieu a Voltaire, lo utilizzò come agente segreto, confidente, studioso di cose militari, matematico.
Intelligente e brillante, Gannibal rispose in tutto e per tutto alle aspettative del sovrano e in una vita lunga (morì più che ottantenne, nel 1781) arrivò alle massime cariche militari, fu proprietario terriero, trattò i suoi servi della gleba in modo civile. Poliglotta, autore di trattati di ingegneria militare, rappresentò, insomma, al suo meglio l’incontro fra Africa ed Europa, nonché la modernizzazione che allora attraversava la Russia.
Puškin nacque all’incirca vent’anni dopo la scomparsa del suo avo: l’ultimo periodo della vita di Gannibal era stato quello di un autoesiliato nella propria dacia di campagna, un ex uomo di corte che dopo essere sopravvissuto a otto zar e aver già sperimentato un esilio in Siberia, temeva di restare coinvolto ingiustamente in qualche nuova congiura di palazzo. Da qui l’eliminazione di molte carte e di molti documenti, più o meno compromettenti, in un falò che lo rese più tranquillo da un lato, contribuì a farlo dimenticare dall’altro. Quando il pronipote cominciò a interessarsi di questo avo così pittoresco era ormai passato mezzo secolo, un’immensità per allora. Così la biografia che avrebbe voluto dedicargli, il già citato Il Negro di Pietro il Grande, non fu mai portata a termine e quando nel Novecento Nabokov si interessò al capolavoro di Puškin, l’Evgenij Onegin, e da questo, anche al «moro progenitore», l’impossibilità di fare ricerche sul campo (la famiglia di Nabokov era fuggita dalla Russia dopo la Rivoluzione di Ottobre e lo scrittore considerava il nuovo regime «uno Stato di polizia») fece sì che intorno a quella figura permanesse un’aura di mistero.

Adesso, grazie anche al saggio di Barnes, «il Moro di Pietroburgo» ritrova la sua vera identità e quella statuetta sulla scrivania-scrittoio al primo piano della casa-museo al numero 53 dell’Arbat splende di nuova luce.

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