Ma quale femminista Semmai femminile

Ma quale femminista Semmai femminile

Eleonora Barbieri

Nel maggio del 1912, Virginia (ancora Stephen) scrive a Leonard Woolf, che le ha chiesto di sposarlo: «Io voglio tutto... amore, bambini, avventura, intimità, lavoro». C'è qualcosa di più femminile di una donna che dichiara: «Voglio tutto»? Ecco poi come si descrive, sempre nella stessa lettera (raccolta in Ritratto della scrittrice da giovane, Utet): «Dunque, un momento sono quasi innamorata, voglio che tu sia sempre con me, sappia tutto di me, e un attimo (...)

(...) dopo sono selvatica e distante». Poco tempo prima, all'amica Molly McCarthy aveva confidato: «Io mi sento stranamente veemente, molto esigente, difficilissima da sopportare, intemperante e volubile, un momento penso a una cosa e l'istante dopo penso a un'altra». Se non è il ritratto di una donna questo. Altro che femminista, Virginia Woolf è femminilità pura. È così femmina da non dovere nemmeno dimostrare di esserlo, da non pensarci. Proprio come dovrebbero fare le scrittrici, come spiega in quello che è considerato il manifesto del suo femminismo, Una stanza tutta per sé: «È fatale che chiunque scriva abbia in mente il proprio sesso (...). Per una donna è fatale porre il benché minimo accento sui motivi di risentimento che può avere; prendere le difese di qualunque causa, anche se giusta; parlare comunque con la consapevolezza di essere donna». Se questo è un manifesto del femminismo... E «fatale» si intende in nome dell'unico vero ideale (e non ideologia) della Woolf, cioè l'arte, perché «qualunque cosa scritta con quel consapevole pregiudizio è destinata a morire». Di più: nel suo presunto manifesto del femminismo, alle donne dice che «tutto questo rivendicare superiorità e accusare inferiorità, appartiene alla fase scolastica dell'esistenza umana, quella in cui ci sono le squadre»; e però «sottomettersi ai decreti dei misuratori è il più servile degli atteggiamenti». Figuriamoci se Virginia volesse essere servile: lei voleva essere «se stessa». In nome della letteratura, ovviamente, quella per la quale bisogna badare, innanzitutto, alle cose materiali; per cui sempre lei, la paladina del femminismo, sostiene: «Delle due cose - il diritto al voto e il denaro - il denaro, devo ammetterlo, mi sembrò di gran lunga la più importante». Di qui le famose cinquecento sterline e la stanza tutta per sé, condizioni per fare letteratura, perché un poeta, dice, non sboccia nella povertà. Sarà per questo che nell'ultima lettera da nubile scrive a Maynard Keynes: «Ti accludo il conto - è da spilorci pensare a queste cose la sera prima di sposarsi - ma ho molti conti da pagare». I soldi non sono da disprezzare; la politica, l'impegno nei movimenti e gli intellettuali in genere, sì. Più che i discorsi pseudo-elevati, «lavorare a maglia è un'ancora di salvezza»; perché quello che conta è la scrittura: «Sono convinta che ogni bene, così come ogni male, provenga dalle parole». E per scrivere le parole che vuole scrivere, non c'è frivolezza da tralasciare né bassezza da nascondere, ma nemmeno un sesso da promuovere. Scrive all'amica Violet nel 1906: «Credo che la cosa che faccio meglio siano le faccende domestiche (...). Ti interessa l'economia domestica? Credo la si dovrebbe considerare alla stessa stregua della letteratura, e anzi, non vedo come si possano separare le due attività. Per lo meno, se si cerca di mettere i libri da una parte e la vita dall'altra, diventano entrambi miseri ed esangui.

La mia teoria, invece, è che sono due cose indistinguibili l'una dall'altra». È per questo che Virginia Woolf taglia le pagine del libro di Keats col coltello dell'arrosto, e darebbe volentieri il suo «profondo greco, pur di sapere ballare bene...».

Eleonora Barbieri

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