Gli ultimi mesi del l609 furono molto inquieti per il cardinale Federico Borromeo. Non solo per le difficoltà della sua azione pastorale. In una Milano dominata dallo scandalo «manifesto e comune dello sconcio parlare», dove i nobili non fanno altro che «vagheggiare alle carrozze, tenere giuochi pubblici in casa e far pasti di soverchia spesa e delicatezza», i mercanti «bugiardi e spergiuri fanno contratti ingiusti e ingannano molti forestieri» e i giovani della «plebbe contrastano, fanno rissa, si danno e si ingiuriano». Oltre alle sue preoccupazioni d’arcivescovo, il quarantacinquenne Federico attendeva con ansia di potere mettere finalmente le mani su un tesoro di carta inseguito per anni. Ciò che sperava di poter fare prima dell’8 dicembre, quando un altro suo sogno si sarebbe ufficialmente concretizzato. Nel mirino dell’attesa c’erano ventidue grandi casse piene di codici latini e greci. Ovvero la parte più preziosa della raccolta, famosa a tutti gli eruditi d’Europa, di manoscritti e stampati che Gian Vincenzo Pinelli aveva riunito nella sua casa museo di Padova, tra il 1558 e il 1601. Morto lui, quel patrimonio culturale, desiderato da molti, era finito a Napoli e dopo anni di tira e molla con gli eredi, messo all’asta nel 1608. Grazie all’intelligente (e paziente) opera dei suoi collaboratori, Federico era finalmente riuscito ad acquisire quel tesoro librario. Ma restavano i timori per il trasporto, da Napoli a Genova via mare e poi a Milano. Considerato che già qualche anno prima una parte della casse era finita preda dei pirati turchi e gettata in mare. D’altra parte, quella di Pinelli era una raccolta di gran valore – basti pensare alla celebre «Iliade» dipinta del V-VI secolo (51 frammenti su pergamena raffiguranti 58 scene del poema). E per Federico l’arrivo di quelle casse, il loro aggiungersi al già cospicuo patrimonio librario accumulato in tanti anni di ricerche, rappresentava la consacrazione naturale del suo antico progetto: la creazione, sull’esempio della Vaticana, di una grande biblioteca. Di una biblioteca che, in una Milano senza università e chiusa in elitarie accademie, fosse invece aperta al pubblico, al servizio degli studiosi. Che non fosse insomma preziosa ma sterile conservazione di volumi.
Fortuna volle che a metà novembre 1609 i «fachini scaricarono i carri de libri di Genova» in piazza San Sepolcro. Qui, sei anni prima, Federico aveva dato inizio ai lavori della «sua» Biblioteca Ambrosiana. E qui l’8 dicembre 1609, festa dell’Immacolata, avvenne la fastosa inaugurazione di una realtà culturale che non aveva precedenti, e di cui la città poteva a buon diritto dirsi orgogliosa. Fatta eccezione per la Bodleiana di Oxford (1602), che aveva modalità di consultazione diverse, l’Ambrosiana poteva considerarsi la prima biblioteca veramente pubblica. In un periodo in cui i testi erano nascosti negli armadi e le sale di lettura delle biblioteche sostanzialmente piene di leggii cui i volumi erano legati o incatenati, in piazza San Sepolcro, un passo dal Duomo, i libri – lo ricorda anche Manzoni ne «I promessi sposi» – «erano esposti, dati a chiunque li chiedesse e datogli anche da sedere e carta e penna e calamaio per gli appunti». Per non dire dei bracieri e perfino dei soppedanei, «perché non patiscano freddo in tempo d’inverno i Studenti con l’appoggiare i piedi sul nudo terreno».
Quell’8 dicembre 1609 fu dunque una festa per la Milano colta (a cui però il governatore spagnolo Fuentes non partecipò). Tutti gli intervenuti poterono poi rendersi conto della eccezionalità e della vastità del catalogo della nuova biblioteca. Ammirando, tra l’altro, due fogli manoscritti della «Summa contra gentiles» di San Tommaso, il «Virgilio» illustrato da Simone Martini e appartenuto al Petrarca, «e anche un raffinato «Corano» del secolo precedente. A conferma, in quest’ultimo caso, di quanto ampio fosse l’orizzonte culturale del Borromeo, e di quanto intensi fossero stati la sua ricerca di opere importanti e il suo sforzo finanziario.
L’Ambrosiana presentava poi anche la novità dei «dottori», studiosi che seguendo il motto di Federico, singuli singola, si dedicavano a una sola disciplina. Erano una sorta di cavalieri del sapere specifico, dell’assistenza scientifica.
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