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Quando CdB tradì l’accordo tra galantuomini

Quando CdB tradì l’accordo tra galantuomini
È un po’ quello che succede quando due bambini litigano: entrambi fanno qualche cosa che non va, magari un’azione fallosa, forse si lasciano trascinare. Inevitabile, umano, comprensibile. Però non è male stabilire chi fra i due ha incominciato la rissa, chi ha tirato il primo schiaffo, perché è sempre utile sapere come stanno le cose. È una massima che si può applicare a quello che è avvenuto fra i due duellanti nazionali, vale a dire Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, il Cavaliere e l’Ingegnere che da anni si combattono sui mercati e nelle aule dei palazzi di giustizia sulla nota vicenda del controllo-spartizione della Mondadori.

La storia, come tante altre in questo Paese con le lancette dell’orologio che camminano all’indietro, parte una ventina di anni fa. La casa editrice di Segrate guidata da Mario Formenton, marito di Cristina Mondadori, è in difficoltà, quasi travolta dall’avventura televisiva di Rete 4 che si è rivelata più onerosa del previsto. Capisce che da sola non riuscirà ad andare avanti, è indispensabile chiamare dei rinforzi, farsi affiancare da qualcuno con capitali adeguati. È il 1986 e la soluzione che viene individuata è questa: si crea una cassaforte alla quale le famiglie Mondadori-Formenton conferiscono i loro pacchetti della casa editrice. Questa scatola viene battezzata Amef (acronimo di Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria) e ha come soci i Formenton, e l’altro ramo della famiglia, vale a dire Leonardo Mondadori, che insieme ne controllano il 25 per cento; un altro 16 è della Cir di De Benedetti, mentre la Fininvest di Berlusconi ha l’8. Quote minori vanno ad altri bei nomi del capitalismo nazionale, come i Rocca, che insieme formano una sorta di salotto buono dell’editoria. Tanto buono che la sede per l'Amef viene trovata in un elegante palazzo di via Montenapoleone a Milano.

Anche l’immagine reclama la sua parte. E la reclamano le due new entry dell’Amef, proprio De Benedetti e Berlusconi che nella Milano dell’epoca sono guardati, entrambi, con un certo sussiego dai salotti buoni tradizionali che li ritengono (ripetiamo: entrambi) due parvenu, bravi quanto disinvolti, lontani dalle maniere che, apparentemente, caratterizzano le storiche famiglie del capitalismo italiano, allora non ancora incamminate su quella china di decadenza che avrebbero imboccato di lì a poco. L’ingresso nell’Amef accanto a un nome blasonato come quello dei Mondadori dà loro uno status appagante, oltre a un ruolo di primo piano nella plancia di comando di una delle più importanti case editrici italiane. I soci di quella scatola-contenitore sono legati da un patto di sindacato che regola i rapporti reciproci.

E soprattutto dice - come sempre negli accordi di quel tipo - che se uno dei soci decide di vendere la sua partecipazione, deve prima offrirla ai suoi colleghi che hanno il diritto di rilevarla pro quota. Tutto fila liscio per un anno, ma nel 1987 Mario Formenton muore. E la situazione si fa difficile, perché risulta subito chiaro che gli eredi prima o poi passeranno la mano. Secondo i giornali dell’epoca, sarebbe stato lo stesso Formenton a consigliare ai suoi questo passo, e a indicare De Benedetti come candidato da scegliere per il passaggio di testimone. Suggerimento che all’inizio viene seguito diligentemente: l’amicizia fra le famiglie Mondadori e De Benedetti, fra Cristina e l’Ingegnere è solida, profonda. E l’anno dopo sfocia in un passo inatteso: il 21 dicembre Cristina firma un accordo con l’Ingegnere nel quale impegna la famiglia a vendere alla Cir la sua quota nell’Amef. Attenzione: non è una vendita, ma una promessa di vendita da attuare in futuro e non muta nell’immediato l’assetto azionario. Quindi formalmente le regole del patto sono rispettate.

Formalmente. Chi ha vissuto quelle giornate ricorda anche dei dettagli. Eccoli: Leonardo Mondadori viene informato dell’accordo, della promessa di vendita delle azioni Amef per 10mila lire l’una; gli viene anche assicurato che De Benedetti è disposto a riconoscere lo stesso prezzo per la sua quota. Leonardo va a Roma, negli uffici capitolini dell’Olivetti (controllata allora da De Benedetti), in piazza di Spagna. L’Ingegnere gli conferma la sua disponibilità a rilevare il suo pacchetto a quel prezzo e gli fa anche notare che si tratta di una carineria, non essendo a quel punto la sua partecipazione determinante per il controllo. Leonardo esce dall’ufficio e si mette in contatto con Berlusconi, il quale è indignato e rilancia: «Ti compro io quelle azioni e a 15mila lire l’una».

Nei mesi successivi succedono altre due cose, su fronti lontani ma convergenti: i rapporti fra Cristina Mondadori e De Benedetti si raffreddano; La Repubblica incomincia a lanciare attacchi politici molto decisi contro il segretario del Psi, Bettino Craxi, il politico più vicino al Cavaliere. C’è un clima teso, la guerra di Segrate è agli inizi. La dichiarazione ufficiale è del 2 dicembre 1989: la famiglia Formenton rompe l’intesa dell’anno prima che la legava con De Benedetti e ne firma un’altra che la lega a Leonardo Mondadori e a Berlusconi. Le ragioni? Si leggono in un comunicato dell’epoca della Fininvest: «Nei mesi scorsi la famiglia Formenton ha potuto constatare, da parte di Cir, comportamenti e propositi contrari allo spirito e alla lettera del patto di sindacato dell’Amef e in particolare finalizzati all’emarginazione della finanziaria a vantaggio della scalata autonoma e ostile alla Mondadori da parte della stessa Cir».

Ed ecco lì il primo schiaffo.

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