Soldi, soldi, talmente tanti soldi da fare arrabbiare gli stessi compagni di partito. E non un compagno qualunque: addirittura il segretario, Dario Franceschini, concorrente diretto alla guida dei Democratici. Denaro di cui lo staff di Pier Luigi Bersani disponeva in dosi massicce, forse addirittura sforando il tetto di spesa imposto dal congresso ai candidati alle primarie del 2009. E chi guidava la campagna elettorale del futuro vincitore? Lui, Filippo Penati, l’ex sindaco di Sesto ora indagato per un presunto giro di tangenti milionarie.
Bersani aveva scelto personalmente Penati come coordinatore della mozione 1, cioè capo della campagna elettorale delle primarie. Alla vigilia della nomina, il Corriere della Sera ne faceva questo identikit: «Un politico navigato ma senza responsabilità nazionali, un amministratore locale del Nord, un ex diessino ma “sceriffo democratico” attento alle esigenze della sicurezza». Insomma, era l’uomo giusto al posto giusto, al punto che dopo la nomina a leader del Pd Bersani lo confermò al proprio fianco come capo della segreteria. Fiducia piena e incondizionata. Che Penati ricambiava con entusiasmo: in un’intervista al Riformista dopo il lancio della «mozione Bersani», l’ex presidente della Provincia di Milano rivelò di essere stato contattato anche da Franceschini. Al quale Penati oppose un cortese rifiuto: «Ho scelto il campo che sentivo più vicino alla mia esperienza, alla mia storia, alla mia cultura». Il campo di Bersani e D’Alema. E Franceschini ripiegò su Piero Fassino.
Dal 1° luglio al 25 ottobre 2009, data dell’incoronazione di Bersani, fu una campagna elettorale senza esclusione di colpi, carica di ricorsi, sospetti, veleni. Il voto era riservato agli iscritti, ma in Calabria la mozione Bersani ebbe più consensi di quant’erano le tessere. In Liguria le truppe di Franceschini segnalarono che sui facsimile distribuiti dal partito per spiegare le modalità di voto compariva il nome di Bersani. In alcune località del Sud i due principali contendenti incassarono percentuali bulgare, superiori all’85 per cento, alimentando i sospetti di brogli.
Ma l’accusa più grave riguardò proprio l’uso dei soldi. Fu Franceschini a denunciare l’operato dello staff di Bersani, facendo proprio un malumore molto diffuso «tra elettori e iscritti del Pd», come scrisse il segretario in una lettera inviata ai competitor. Gli spazi a pagamento (muri, tv, giornali, fiancate dei bus) erano invasi dai manifesti con la faccia di Bersani. «Uno spreco enorme - protestò Franceschini -. I militanti vivono tra mille difficoltà finanziarie e capiscono a fatica perché vengono impiegate risorse e costosissimi spazi pubblicitari per la competizione tra noi, anziché essere utilizzati per il partito o per contrastare le scelte del governo».
«Solo i manifesti e l’attacchinaggio saranno costati 200mila euro», stimò Roberto Cuillo, portavoce di Fassino. E il partito si era dato un tetto di spese elettorali pari a 250 mila euro. «Qualcuno in questo Pd si sente proprietario del partito, ora si capiscono le resistenze a mollare le sedi, a mischiare le casse e i patrimoni, il proliferare di fondazioni», aggiunse Francesco Saverio Garofani, braccio destro di Franceschini. Che nella lettera aveva chiesto un codice di autoregolamentazione «che blocchi tutte le forme di pubblicità personale a pagamento». Gli uomini di Bersani reagirono con un’alzata di spalle: «Non buttiamola in caciara».
Pochi giorni prima di questa polemica, Penati sull’Unità aveva difeso l’apparato del partito e criticato la «delegittimazione» di cui il suo candidato si sentiva il bersaglio. Era lui a guidare la campagna elettorale del futuro segretario, da lui transitavano i molti (troppi?) soldi investiti nella propaganda. Che finivano, come recitava lo slogan elettorale bersaniano, «in mani sicure».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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