Cronache

Quando per guarire era necessario far «ragionare» la giunta

Negli anni Sessanta dell'Ottocento si pubblicava a Genova una rivista settimanale di cronaca locale e di costume con qualche venatura umoristica; non aveva colorazioni politiche ed era diretta da un medico veterinario, tale dottor Giuseppe Camusso. Come diceva la scritta sotto la testata, si trattava di una «Rivista settimanale di ciò che si vede e non si vede, diretta e compilata da una società di ben-dicenti». Non ci è dato di sapere chi vi collaborasse, perché gli articoli erano firmati con pseudonimi per noi sconosciuti: «Ficcanaso, Caricalasino, Madame Polichinelle...». Ma da questa rivista ne trasse un simpatico consiglio Dario G. Martini nel suo libro «Genovesi malelingue» del 1991. Si legge in un numero della rivista: «Chiunque per reumi, raffreddori o altro, abbia bisogno di sudare, potrà facilmente riuscire nel suo intento. Non ha che da applicarsi a far ragionare la Giunta Municipale di Genova. Il mezzo è poco costoso e la riuscita è guarentita».
Dopo quasi centocinquant'anni questo consiglio ci sembra terribilmente attuale.
Altrettanto attuale può essere la rilettura, che si può fare presso l'Archivio di Stato genovese, dei cosiddetti «biglietti di calice».
Occorre innanzitutto dire, per spiegare cosa fossero tali biglietti, che nel porticato del cortile minore di Palazzo Ducale, esisteva, e tuttora sussiste, una buca di impostazione con relativo sportello, dentro la quale era sistemato un recipiente a calice. In esso i cittadini potevano imbucare, in forma del tutto anonima, le loro comunicazioni dirette al Doge e ai Supremi Sindacatori che erano la massima autorità di controllo dell'attività del Governo; ad essi era consentito sindacare anche l'operato del Doge.
La lettura di questi biglietti, tutti rigorosamente anonimi, che ancor oggi possiamo fare nelle filze dell'Archivio di Stato, è veramente importante per ricostruire aspetti di vita e di costume della Genova dei Dogi. Dal «gossip» dell'epoca, alle critiche su leggi e provvedimenti della Serenissima Repubblica, a usanze cittadine dell'epoca, i biglietti denunciano senza remore malefatte, abitudini, tresche, abusi di privilegi.
Un tale scrive a proposito di «lucciole», e sembra cronaca odierna:
«Havvi quantità non piccola di donne e ragazze che girano di giorno per la città, e di notte portansi a capo di molte strade e luoghi ove si va a teatro o a passeggio, tentando e allettando ogni persona e singolarmente la incauta e fervida gioventù, di modo che fra brevi anni si troverà la città piena di cronici, ed atti all'Ospedaletto quei giovani che dovrebbero servire al bene della Repubblica e alle arti sociali...».
Da un altro apprendiamo che la «movida» non è cosa solo odierna:
«Sig. Ser.mi, il libertinaggio introdottosi a Genova in materia di costumi è giunto all'eccesso, di notte si cantano a gran voce canzoni così dissolute ed oscene che devonsi certamente scandalizzare e le monache e tutte le persone nubili e innocenti».
Ed a proposito di «auto blu» e di privilegi della casta:
«Il Magnifico Carlo Spinola, uso marciare in città e fuori con Lachè e bastone proibito» oppure «La Marchesa Serra che marcia per Genova in bussola preceduta da stafieri con bastoni di grossa canna d'India e pomi d'argento in peso di due libbre che sono capaci a rompere la testa a chi che sia».


E per concludere c'erano anche le lamentele e le proteste dei poveri mariti che deploravano le mogli spendaccione afflitte, diremmo oggi, da «shopping compulsivo»: nel 1714 uno di loro chiedeva ai governanti di porre per legge un freno alle «pretese vanesie de le nostre signore dame che spendono
senza avvertire né curare che la cosa pregiudica alle borse dei mariti» e che così facendo «i mariti si rovineranno e non potranno pagare le imposizioni pubbliche necessarie per il sostentamento della Repubblica».

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