Quando i cardinali posano in copertina

Quando i cardinali posano in copertina

Con inescusabile ritardo, ho pescato dalla pila dei giornali non ancora sfogliati il numero di settembre del «primo mensile per gli uomini che amano la vita», Gentleman. In copertina c’è il cardinale José Saraiva Martins, 74 anni, portoghese, fotografato in pompa magna: talare filettata di rosso, fascia, asole e bottoni di seta dello stesso colore, croce pettorale con catena, anello. Il porporato tiene la mano appoggiata sull’Artide di un antico mappamondo. «L’aristocrazia globale», titola Gentleman. Segue glossa: «Cultura, relazioni e prestigio internazionali. Etica elevatissima e passioni molto comuni. Fedeltà a un unico codice e flessibilità politica. In un’espressione: il potere su tutta la Terra, e oltre. Ecco come vive un principe della Chiesa». Già previsto nel Vangelo: se non diventerete piccoli come i bambini non entrerete nel regno dei cieli. Forse sua eminenza s’era un po’ stancato di comparire solo fra le righe dell’Osservatore Romano. Non dev’essere facile, neppure per un componente del Sacro Collegio, accettare che sul giornale della Santa Sede tutti i giorni campeggino in prima pagina, a caratteri cubitali, titoli come questo: «Bartolomeo» (edizione del 5 ottobre). Avessero scritto almeno una volta «José».
Chissà che cosa avrebbero detto i genitori Antonio e Maria vedendo il sesto dei loro otto figli in posa da tycoon sulla copertina di Gentleman. Sarà per questo che lo mandarono in seminario all’età di 12 anni? E la sorella del cardinale, suor Cassiana, missionaria in Angola (160° posto nell’indice Onu di sviluppo umano, aspettativa di vita alla nascita 40,8 anni), avrà avuto fra le mani questa rivista per lettori «accomunati da un elevato potere d’acquisto e dall’interesse per la qualità della vita»? Vabbè, vanità delle vanità, tutto è vanità. Ma, figurando tra i cardinali elettori, a José Saraiva Martins un giorno potrebbe persino capitare di diventare Papa (improbabile, anche se lo Spirito soffia dove vuole). In quel caso che cosa andrebbe a raccontare agli angolani? Non si capisce quali oscuri motivi abbiano indotto un principe della Chiesa, già depositario del potere su tutta la Terra, e oltre, a cedere alle lusinghe di Class editori, accettando di comparire fra superyacht e golette d’epoca. Sarà anche un gentleman, ma non ci faceva una bella figura.
La vicenda del cardinale affetto da vippismo, di per sé modesta, ha intersecato la lettura sul giornale della mia città – che è poi quella di Giulietta e Romeo e dell’amore – di una notizia davvero sorprendente: nel giro di un solo decennio, i matrimoni civili hanno superato quelli religiosi. Su 594 coppie che si sono sposate l’anno scorso, ben 315, pari al 53%, hanno preferito farlo davanti al sindaco (cattolico) di centrosinistra o al suo delegato, un pittoresco avvocato, già legale di fiducia di Pietro Maso, che gira con una scarpa rossa e una blu e celebra il rito in un sito oltremodo auspicale: la Tomba di Giulietta.
Bel biglietto da visita per Benedetto XVI, che dopo essersi spolmonato appena domenica scorsa, all’Angelus, a ribadire che la famiglia appartiene al patrimonio di valori non negoziabili iscritti nella stessa natura umana, giungerà giovedì prossimo in questa amena città. Dove sarà accolto dal «Razzinga day» organizzato dagli omosessuali dell’Arci, con tanto di pubblica «frocessione», così definita dagli stessi organizzatori (v’è da sperare che non procedano in fila indiana). L’occasione per la visita del Papa a Verona è offerta dal IV Convegno ecclesiale nazionale, che si tiene ogni dieci anni, giusto quelli occorsi per trasformare una città di santi, di martiri, di missionari e di politici devoti, la più fedele del cosiddetto «Veneto bianco», nella capitale dei matrimoni civili. Certo non un’eccezione nel panorama nazionale. Però, siccome nelle redazioni siamo abituati a chiederci se non sia colpa dei giornalisti quando si perdono copie, val la pena di domandarsi se la crisi delle coppie non dipenda anche da certi cardinali, da certi vescovi, da certi preti. Una cosa è certa: al nostro posto, sarebbero già stati licenziati.
MAMMA, HO PERSO L’AEREO. Nella ricorrenza dell’11 settembre, un’intera pagina di pubblicità della Stampa annunciava la pubblicazione di World Trade Center, i giganti che sfidavano il cielo, un volume fotografico di 168 pagine, messo in vendita dal giornale torinese «per non dimenticare». Sicuri di non aver già dimenticato qualcosa, invece? Nell’autoréclame si leggeva: «L’11 settembre 2001, cinque anni fa, davanti agli occhi increduli e terrorizzati del mondo, le Torri gemelle di New York sono crollate». Oh, che peccato! Così, all’improvviso, per conto loro? Terremoto? Incendio? Implosione? Difetto strutturale? Non si sa, crollate e basta. Converrete che ricorda il titolo dato dall’Europeo nel 1950 all’inchiesta di Tommaso Besozzi sulla fine del bandito Salvatore Giuliano: «Di sicuro c’è solo che è morto». Anche per le Torri gemelle di sicuro c’è solo che sono crollate. Se per colpa di Osama Bin Laden o di George Bush, lo stabilirà la storia, sembra suggerire La Stampa. La conclusione è in linea con la cautela sabauda: «Il volume vuole ricordare questa straordinaria opera dell’ingegno non solo con le immagini più spettacolari, ma anche attraverso la storia illustrata della sua breve ma fulgida esistenza e con la cronaca convulsa e drammatica del suo tragico epilogo».

Grande sperpero di aggettivi per ribadire il concetto: non di attentato, non di abbattimento, non di crimine contro l’umanità s’è trattato, bensì di un tragico epilogo. Ma sì, devono proprio aver ceduto le strutture portanti. Comunque ora perlomeno sappiamo chi sono i responsabili del crollo di una civiltà, la nostra: noi.
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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