Quando i romanzi rosa erano blu

Non solo Liala e Carolina Invernizio: un saggio rivaluta la letteratura d’appendice del primo Novecento

Sugli scaffali di molte famiglie ancora oggi resistono, con inevitabile coltre di polvere, opere di autori che la storiografia del dopoguerra ha epurato con scientifica accuratezza. Poco importa che quei libri un tempo fossero venduti in migliaia e migliaia di copie: anzi, il successo garantito dalla borghesia, facilmente eccitabile - si diceva - dall'uso trito e ritrito degli stessi temi convenzionali, rappresenta da solo il motivo di tale rimozione. Invece, quella che con malcelato disprezzo è stata definita «letteratura di consumo» meriterebbe tutt'altro trattamento che non la liquidazione semplicistica riservata agli autori letti sui tram o nell'anticamera del dentista e perciò condannati a una specie di serie B letteraria.
Per decretare la damnatio memoriae del romanzo popolare dei primi decenni del secolo scorso, buona parte della critica letteraria italiana ha mobilitato il consueto, ricco repertorio di etichette, spesso a prescindere dai reali contenuti dei bestseller in questione. Da Carolina Invernizio alla ancora amatissima Liala, passando per Pitigrilli, d'Ambra, da Verona, Zuccoli e tanti altri, sarebbe stato tutto un facile trionfo di patetismi intimisti, vigorose innaffiate di buon senso e consolatorie trame dal semplice, scontato intrattenimento. Poi, una spruzzatina, qua e là, di erotismo pruriginoso per scompigliare il catalogo dei facili sentimenti, ed ecco che la ricetta era servita, per la delizia a buon mercato della piccola borghesia, colta o semicolta, galvanizzata da sofisticate e morbose decadenze.
Gli ingredienti di questa letteratura d'appendice, sia pure intercambiabili e variabili a seconda del dosaggio, erano senza dubbio seriali e accessibili a tutti, come insegnava il modello del fogliettone ottocentesco. Una combinazione di motivi che il regime fascista a caccia di consenso seppe governare, riciclando il patrimonio dei valori tradizionali (la letteratura educativa per i fanciulli o quella per le signorine sognanti l'amore travagliato coronato dal lieto fine) e le fantasie, solo apparentemente insidiose, legate alla trasgressione della routine del quieto vivere quotidiano.
A ispirare le passionali vicende della cosiddetta «paraletteratura», ci furono naturalmente le immaginifiche voluttà di D'Annunzio, tessitore di una letteratura alta ben integrata all'interno del mercato culturale. Eppure ciò non basta a qualificare un'intera galleria di letterati col marchio riduttivo di epigoni. Né coniugare una certa volontà di fare scandalo e le atmosfere, ormai residuali, di un mondo aristocratico in disfacimento è sufficiente a delineare un universo letterario da cui uscirebbe un univoco paternalismo d'accatto, valido solo, come ha scritto Umberto Eco, ad appagare le aspettative di legioni di incolti lettori della domenica in cerca di «gratificazioni fittizie». A ben vedere, c'è molto di pretestuoso nella preconcetta svalutazione di scrittori raffinati come Pitigrilli e da Verona, assai più che semplici mestieranti idolatrati da sartine e casalinghe di Voghera.
Spetta a Enrico Tiozzo, docente di Lingua e letteratura italiana all'Università di Göteborg, il merito di aver offerto una più corretta collocazione di questo genere letterario all'interno del variegato panorama culturale che parte dall'inizio del Novecento per estendersi fino alla fine degli anni Trenta. Tiozzo ha infatti dato alle stampe l'ultimo dei cinque volumi intitolati Il romanzo blu. Temi, tempi e maestri della narrativa sentimentale italiana del primo Novecento (Aracne, pagg. 736, euro 40), con cui ha passato in rassegna gli interpreti e gli esponenti maggiori di un filone ricco di suggestioni e fermenti attinti ben oltre il pur fondamentale esempio dannunziano.
A dispetto dei luoghi comuni sorti intorno all'opera di Pitigrilli e compagni, il critico mette in evidenza che componenti importanti della cultura europea novecentesca siano presenti anche nel romanzo sentimentale: l'uso dell'umorismo, dell'ironia, dell'autoironia infarcisce trame elaborate non solo dal gusto estetico morboso o dal desiderio della pruderie a tutti i costi. Il tema amoroso ed erotico è centrale, ma è sviluppato con esiti che non hanno nulla di banalmente ottimistico. Il tradimento, i sensi di colpa, il rapporto logorante con l'illecito, la scissione e il dramma interiore conducono non di rado i protagonisti delle storie narrate - ben diversi dagli affettati fanfaroni delle riviste di varietà - al suicidio, all'omicidio o a un penoso scontro con le inadeguatezze dei propri caratteri.
I personaggi dei romanzi di Luciano Zuccoli, ad esempio, da L'amore di Loredana a La freccia nel fianco sono spesso sconfitti, antieroi meschini ed inetti travolti dalla vita; quelli descritti da Guido da Verona, nostalgici, struggenti, talvolta reietti e emarginati, si muovono in bilico tra la tentazione dell'ordine, il fascino del peccato e l'autodissoluzione. La sua opera più celebre, Mimi Bluette, fiore del mio giardino, scritta nel 1916, fu tra i libri più letti ed amati dalla generazione che cresceva tra le trincee e che nella drammatica vicenda della ballerina suicida per amore trasfigurava la propria incerta e prosaica esistenza. Per non parlare, poi, del più celebre di questa schiera di dimenticati, il cinico e scabroso Pitigrilli, al secolo Dino Segre, il talentoso autore di Cocaina e Oltraggio al pudore, in cui l'anticonformismo e lo scavo della società più maledetta e condannata alla marginalità e alla perdizione vanno a braccetto con una polemica contro gli edificanti valori celebrati dalla sopraggiungente retorica della civiltà italica.
Il fascismo, da parte sua, provò a trasformare in veicoli di propaganda questa appetibile merce di successo. In alcuni casi ci riuscì, quando le collane, Sonzogno in testa, dei libri di massa regalavano a profusione stereotipi avventurosi dei trasvolatori e degli eroi dell'epoca nuova o le vicende libertine, ma non troppo, impersonate dai primi miti della celluloide. Altre volte, oscenità e dandismi non vennero tollerati: Pitigrilli fu per anni (prima che se ne sapesse l'attività di collaboratore al soldo del regime) considerato un perseguitato e i suoi libri censurati.

Da Verona invece fu bollato senza mezzi termini da Mussolini e dal suo entourage come «l'ebreo pornografo»: aveva provato, nel 1930, a riscrivere i Promessi Sposi in chiave dissacratoria e ironica. Ma Renzo e Lucia non potevano essere tipi da amori a luci rosse.

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