MilanoI coniugi Covezzi. Giulio Andreotti. Lattrice Gioia Scola. Nomi altisonanti e perfetti sconosciuti. Tutti mescolati nel cestone della giustizia che non cè. Che non arriva. O, se si fa vedere, è ormai fuori tempo massimo. Comunque vada a finire. Come insegna la storia, terribile, di Lorena Covezzi: la donna è una madre distrutta, non sa nulla dei suoi quattro bambini. Li portò via la polizia da una bella casetta della Bassa Modenese il 12 novembre 1998. Undici anni fa. Tondi tondi. Facevano colazione, dovevano andare a scuola. Ora lei piange: «Non so più che faccia abbiano, sono diventati grandi, ma io e mio marito Delfino non li abbiamo più incontrati». Attenzione: la giustizia pensa che Lorena e Delfino siano una coppia di pedofili. O qualcosa del genere. Il paese li difende, il parroco li difende, il vescovo di Modena li difende, tutti ma proprio tutti quelli che li hanno incrociati, li difendono. In tribunale a Modena, li hanno condannati a 12 anni. Era il settembre 2002. Dopo sette anni e più, lappello è un balbettio alle battute iniziali. Sette anni fra un grado e laltro, più dei sei complessivi immaginati da Berlusconi e dalla maggioranza come tetto massimo per la giustizia per i dibattimenti (esclusi i reati più gravi). Dal primo grado alla Cassazione. E non è che i Covezzi abbiano messo i bastoni fra le ruote della giustizia: no, hanno implorato di accelerare, anche sul Giornale, hanno chiesto solo la verità. Ma la verità è ancora lontana e la mamma, angosciata, dice parole pesantissime: «Altri hanno almeno una tomba su cui deporre un fiore. Io nemmeno quella e poi i miei figli sono diventai adolescenti sentendo ripetere da chissà quante persone che il padre e la madre erano due mostri». Comunque vada a finire, è una storia che sgomenta: undici anni senza un verdetto risolutivo, quattro ragazzi portati via, il quinto, nato dopo, che diventa grande con i presunti mostri. Chi è la vittima? E vengono i brividi a pensare che in un filone laterale, a Reggio Emilia, i coniugi sono stati assolti.
Vite rovinate. Chance che non torneranno. Carriere finite su un binario morto. Gioia Scola alla metà degli anni Novanta era unattrice in ascesa. Aveva recitato la parte della bruna fatale nel film Yuppies 2, al fianco di Jerry Calà, Christian De Sica e Federica Moro. Il 7 giugno 95 viene arrestata per traffico di droga dai giudici di Napoli. Contro di lei cè poco o nulla, solo una sfortunata e breve relazione con un uomo sbagliato. Invece, la giustizia sincrudelisce: lattrice viene scarcerata dopo cinque giorni perché il gip non ha avuto il tempo di interrogarla nelle centoventi ore canoniche stabilite dal codice. Tanto il tempo i giudici se lo riprendono subito dopo: la riarrestano, poi va ai domiciliari, fra titoli e foto di giornali che la sistemano sul piedistallo riservato ai boss. Nel 96 la rinviano a giudizio, nel 97 il dibattimento può cominciare, non più a Napoli ma a Roma. Lassoluzione, chiesta addirittura dallo stesso pm, arriva il 31 gennaio 2007. Dopo dieci anni. Dodici dalle manette. Dodici anni, per agguantare una sentenza di primo grado. Oramai lattrice non cè più, e chi vuole cercarla deve andare in videoteca.
Il tempo del limbo è stato più breve per Giulio Andreotti. Dal 1993 al 2004. Undici anni in tutto. Una stagione più che sufficiente, comunque, per toglierlo di peso dal firmamento della politica italiana. Dal 1993, il sette volte presidente del Consiglio cambia professione. Diventa imputato. Imputato eccellente ma anche modello. Un imputato che non si difende dal processo ma nel processo. Non gli serve per abbreviare i tempi che sono lunghi, lunghissimi, interminabili. Lassoluzione finale è del 2004, ma è, tanto per cambiare, una soluzione allitaliana. Double face. Che accontenta e scontenta tutti. Per la giustizia italiana esiste un Andreotti contiguo, anzi organico a Cosa Nostra, fino al 1980, e poi un Andreotti che non ha nulla a che fare con la mafia, dopo quella data. Il primo Andreotti se la cava con la prescrizione, una macchia su un curriculum che fa storia, il secondo viene assolto. Così come viene dichiarato innocente il terzo Andreotti. Quello portato alla sbarra, nientemeno, come mandante dellomicidio del giornalista Mino Pecorelli. Ma pure qua, lattesa, lunga dieci anni, è sfibrante e il senatore sale e scende dalla giostra crudele dei verdetti che alternano assoluzioni e condanne.
Il cammino processuale di Milena Bertani è stato più veloce: nove anni in tutto. Dallinizio delle indagini alla Cassazione. Dal settembre 2000 al novembre 2009. Nove anni che si riassumono così: cinquanta giorni agli arresti domiciliari per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, e poi tre assoluzioni in fila. In primo grado, in appello, in Cassazione. Lei, che nel 2000 era lassessore al Bilancio della Regione Lombardia, aveva chiesto il processo con il rito immediato, per non perdere tempo. Ha atteso con pazienza e ora dice: «Ho dovuto reinventarmi unaltra esistenza». Lei cè riuscita.
Non è così per tutti. La storia politica di Carmelo Conte, socialista, parlamentare e ministro allinizio degli anni Novanta, si è fracassata nel 93 contro lavviso di garanzia inviato dalla Procura di Salerno per concorso esterno in associazione camorristica. Il rinvio a giudizio è del 95, il dibattimento inizia nel 97 e si conclude nel 2007. Conte viene assolto, ora si prepara, a quattordici anni dal colpo che lha messo ko, a sostenere lappello. Con calma. Quando sarà. «Credo - ironizza lui - che il mio sia un record europeo. Mi hanno distrutto la carriera e la vita con il sentito dire dei pentiti».
Ma la giustizia può essere sconfitta anche quando vince e presenta il conto. Esige il suo tributo. Come quello che ora sta pagando Michele Tironi, sospettato e poi condannato per lomicidio della moglie.
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