C’è stato un tempo in cui con uno come lui, come Gianfranco Fini, Gianfranco Fini non avrebbe preso «più nemmeno un caffè». Lo disse di Umberto Bossi, era il dicembre 1994 e la Lega aveva appena mandato all’aria il governo Berlusconi. Per l’allora leader di An, poi co-fondatore per sbaglio del Pdl, oggi neopapà di Futuro e libertà per l’Italia, fu quello il calcio d’inizio di una partita giocata tutta in contropiede, quindici anni a cambiare per non morire, per dirla con Fiorella Mannoia, la rossa che al presidente della Camera rivolse accorato appello: «Onorevole Fini, dia il suo contributo a ridare dignità a questo Paese e da sinistra le daremo il benvenuto».
In fondo, se un tempo se ne annotava il «muscolo missino» e adesso invece lo si appella come «compagno Gianfry», significa che di svolte ne ha fatte parecchie, Fini. E in effetti, dal «fascismo male assoluto» al «diritto di voto per gli extracomunitari», gli ultimi 15 anni sono in fondo la cronaca di una metamorfosi che nemmeno Kafka. Ora ecco l’ultima trasformazione, quella che in questi giorni ha fatto dire a un indignato ascoltatore di radio Padania: «Ma neanche al Gran Consiglio nel ’43 c’è stato un voltafaccia del genere!».
Ripete da un po’, Fini, che tornare alle urne sarebbe una scelta sbagliata, «un fallimento di questa maggioranza», e che «chi parla di elezioni anticipate oggi è un irresponsabile». Per l’esattezza, Fini sostiene i suddetti concetti da subito dopo lo scontro in diretta con Silvio Berlusconi alla direzione nazionale del Pdl. Era il 21 aprile scorso quando, con una certa dose di preveggenza, sfidò il Cavaliere: «Che fai, mi cacci?». Quattro giorni dopo, nel primo vano tentativo di non farsi effettivamente cacciare, ai microfoni di Lucia Annunziata Fini giurò fedeltà al premier e al Pdl, avvertendo dei rischi di voto anticipato. Ora che è stato cacciato davvero, Fini continua a sostenere che non c’è ragione di tornare alle urne, perché il suo è un nuovo gruppo parlamentare, non un partito, e darà appoggio esterno al governo. Formule e tecnicismi che un tempo lui stesso avrebbe condannato, e che, anzi, lui stesso ha condannato, pure di recente.
In principio, si diceva, fu il 1994 in cui Bossi fece cadere il governo. Un giorno sì e l’altro pure, Fini tuonava: «Berlusconi bis o elezioni» con contorno di «no ai governi tecnici», dàgli al Lamberto Dini che «non avrà la nostra fiducia perché questo è un golpe di palazzo» e avvertimenti tipo: «Bossi ha fatto il ribaltone, è completamente inaffidabile, con lui non prendiamo più nemmeno un caffè». Poi venne il 1995. Il governo Dini era una realtà, e l’allora leader di An continuava a sollecitare il ritorno alle urne: «Si governa in base a una mandato popolare: è la prima regola della democrazia e non la si può annullare».
E poi ci fu il 2003, forse l’annata migliore. A ottobre An stava litigando con la Lega su un argomento a caso, l’immigrazione, e Fini si ritrovò costretto ad allontanare da sé i sospetti, avanzati dal solito lungimirante Bossi, di cercare «inciucioni» e «inaccettabili maggioranze diverse da quelle di governo». Macché, giurò Gianfranco in quello che oggi pare un déjà vu: «Nessuna alternativa a questo governo», aggiungendo uno spiegone che vale la pena riportare integralmente: «Ho passato gran parte della mia vita politica a combattere ribaltoni e trasformismi, sono convinto che i valori di lealtà sono indispensabili in politica e non cambio idea. Chi parla di governo tecnico o pensa che nel mio immediato futuro ci sia un atteggiamento al di fuori dell’amicizia e della lealtà verso Berlusconi non mi conosce e non ha capito nulla». Ma forse, tutto stava a interpretare quel «nel mio immediato futuro», ecco. Dal 2003 al 2007, comunque, Fini non aveva ancora cambiato idea. Col governo Prodi traballante, bocciava l’idea di un governo tecnico perché «più che di decantazione sarebbe di decomposizione», e invocava le urne: «Prima stacchiamo la spina a questo governo e meglio è». Concetto ripetuto nel 2008: «Si stacchi la spina e subito a votare». Del resto, a chi a fine 2009 lo dipingeva al centro di trame alle spalle del premier Berlusconi, l’inquilino di Montecitorio rispondeva sprezzante: «L’unica maggioranza è quella uscita dalle urne».
Chissà Fini come avrebbe commentato, 15 anni fa, un presidente della Camera che avesse fatto politica senza dimettersi. La risposta c’è. Ancora il 1995 post ribaltone. Sullo scranno più alto di Montecitorio siede Irene Pivetti, che non solo fa dure dichiarazioni contro Berlusconi al congresso della Lega, ma decide di non dimettersi dalla presidenza della Camera.
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