Quando sono le parole a far «cantare» le note

«Poesia per musica e musica per poesia» di Stefano La Via

Qual è l’esatto rapporto di parentela tra l’arte dei suoni e l’arte poetica? Al quesito il musicologo Stefano La Via, docente all’Università di Pavia, dedica un concettoso volume con accluso cd, Poesia per musica e musica per poesia - Dai trovatori a Paolo Conte (Carocci, pagg. 280, euro 28): idea inconsueta ma non peregrina, oggi che non c’è cantautore, tranne forse Pupo o Nek, cui non sia toccata almeno una volta la qualifica di poeta, assegnata da qualche critico di bocca buona. Par di tornare agli anni Sessanta, quando Tenco veniva additato come un surrogato di Pavese, e del resto grandi firme come Pasolini, Fortini, Calvino, Strehler non disdegnavano di scrivere versi per canzoni, mutuando l’esempio già offerto nei secoli da Dante, Petrarca, Tasso, Poliziano, Metastasio.
Anche perciò una diatriba vetusta e noiosetta riemerge carsicamente tra gli addetti ai lavori. Ovvero: può la canzone raggiungere dignità di poesia? Il buon senso ci fa dire che no, non può, trattandosi di due generi diversi per finalità e tecnica: lo affermano concordi letterati e cantautori, i primi per spirito di casta, i secondi per umiltà, ma talora anche per orgoglio. Come Francesco De Gregori, che puntualizza: «Non amo che mi si chiami poeta: sono un autore di canzoni, che è mestiere ben diverso, ma egualmente nobile».
Diverso certo, ma non incompatibile, vista la complicità che nei secoli ha condotto poesia e musica a procedere fianco a fianco, dai lirici greci ai trovatori - la cui poesia, attesta La Via, era «sempre destinata al canto» - amatissimi da Dante, e ancora dal Rinascimento al Secolo dei lumi, fino alle estemporanee collaborazioni Tosti-d’Annunzio, Modugno-Quasimodo, Pasolini-Endrigo. Tanto che nel tardo ’500 il fiorentino Giovanni Bardi, fondatore dell’omonima Camerata, predicava una maggior simmetria tra il verso poetico e le esigenze ritmiche della musica, laddove certe complessità contrappuntistiche ed esornative rendevano difficile il matrimonio fra parole e note. Anche questo ricorda La Via, rilevando come l’incontro musica-poesia - dai madrigalisti al melodramma a Chico Buarque, McCartney, Conte - abbia a volte raggiunto vertici tali che poeti come Metastasio arrivarono ad influenzare, con le loro scelte metriche e fonetiche, le scelte strumentali dei compositori con i quali collaborarono.
Certo, è ovvio che la coesistenza di parole e note non è sempre agevole: la musica, quando nasce prima del testo, come accade per lo più nella canzone, impone una gabbia metrica che limita la libertà della poesia, e lo stesso accade alla musica quando è il testo a nascere per primo, come nel melodramma. Anche per questo rarissimamente i testi per canzoni raggiungono livelli di poesia vera, e gli esempi di Dylan, di Brassens, dei nostri De André, De Gregori e Guccini restano gloriose eccezioni. «Per me è la musica a fare la pagina, il testo viene dopo», dice Paolo Conte che, pur insignito di prestigiosi premi letterari, nega di aver mai scritto una poesia.

E tuttavia come non riconoscere dignità poetica alla sua Alle prese con una verde milonga, così come ad Atlantide di De Gregori, al Pensionato di Guccini, ad Amico fragile o a La domenica delle salme di De André, a molti testi dylaniani?
Perché sul piano teorico Conte ha ragione, ma «ciò non toglie - chiosa saggiamente La Via - che i versi, in virtù della loro alta qualità, ricchezza e potenza evocativa, possano essere apprezzati come opera letteraria a sé stante». Molto di rado, certo. Però accade.

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