di Gio Barabino
Caro dottor Massimiliano Lussana, scrivo da Gemonio, in provincia di Varese, e sono sostanzialmente d'accordo sui concreti motivi de «vado o resto a Genova», esposti da lei e dai lettori che ne hanno scritto. Sono quasi tutti condivisibili e constatabili.
Il mio punto di vista parte però dal fatto che io da vent'anni vivo lontano da Genova per motivi vari e ritorno ogni tanto a trovare figlio, nipoti e sorelle. Subisco quindi la sindrome del «ma se ghe pensu», idealizzando i pro e contro della genovesità. Senza presunzione considero perciò l'aspetto poetico nel pensare e nel rivedere Genova. Scriveva pochi giorni fa Giuseppe Conte che la poesia, anche se la realtà di oggi la ignora, è il lievito del linguaggio, è il pane dell'anima, è il canto dell'universo.
E così, anche se sono lontano da tanto tempo, voglio immutabilmente ricordare e, quando posso, ritrovare quegli angoli di Genova che parlano al cuore, quelle atmosfere che risvegliano i sentimenti più antichi e trasformano i sogni in eventi possibili. Con la poesia, come con la preghiera, le cose che non si possono conoscere diventano più vere delle cose reali. E questo lo hanno espresso i vecchi poeti liguri e i cantautori come De André.
E noi, caro dottor Lussana, appartenenti alla famiglia del suo e nostro Giornale, fieri di essere legati a certi valori e a determinati principi di vita, riusciamo per un momento a dimenticare le tante cose negative della nostra città, verso la quale provo una sempre nuova emozione ad ogni mio ritorno.
Un cordialissimo saluto.