Quando Wojtyla pregò: fatemi fare la Pasqua

L’immagine di un uomo che lotta per ritrovare quella voce perduta

Quando Wojtyla pregò: fatemi fare la Pasqua

Andrea Tornielli

da Roma

La sera del 24 febbraio 2005, quando i medici avvisarono Giovanni Paolo II che era necessario praticargli l’intervento di tracheotomia, il Papa chiese se fosse possibile rimandare l’operazione al periodo delle vacanze estive. È uno dei particolari commoventi che emergono dalla dettagliatissima relazione degli ultimi giorni di vita del Pontefice polacco, redatta dal dottor Renato Buzzonetti, medico personale di Wojtyla e pubblicata nel libro Lasciatemi andare.
Giovanni Paolo II era stato ricoverato d’urgenza quella mattina al Policlinico Gemelli per la seconda volta in meno di un mese, dopo che nelle ore precedenti si erano verificate delle crisi respiratorie che lo avevano portato quasi all’asfissia. «Si rendeva ormai urgente - ha dichiarato Buzzonetti - provvedere a una tracheotomia elettiva di protezione e al posizionamento permanente della relativa cannula. L’intervento avrebbe reso più sicura la respirazione, ma probabilmente avrebbe peggiorato la fonazione». «Con il professor Rodolfo Proietti, direttore del Dipartimento di Emergenza del Gemelli - ha aggiunto il medico papale - spiegai al Santo Padre le cogenti motivazioni dell’intervento, inteso a garantire una respirazione sufficiente e a evitargli le crisi di soffocazione di cui aveva fatto la penosa esperienza. Il malato dava il suo consenso, non senza aver domandato con commovente semplicità se fosse stato possibile attendere le vacanze estive».
Karol Wojtyla, che aveva ostinatamente combattuto una dura battaglia contro la malattia ed era riuscito a continuare la sua missione e i suoi viaggi, noncurante del suo corpo sempre più piegato e immobilizzato, aveva dunque chiesto di rimandare quell’intervento che avrebbe potuto togliergli per sempre la parola. Nonostante rischiasse ormai di soffocare, aveva tentato di resistere un’ultima volta, chiedendo che la tracheotomia fosse eseguita durante le «vacanze estive» alle quali non riuscirà ad arrivare. Voleva poter celebrare la Pasqua.
Prima di entrare in sala operatoria, il segretario del Papa, monsignor Stanislao Dziwisz, registrava su un piccolo magnetofono un ultimo messaggio del Pontefice. Al termine dell’intervento, esauriti gli effetti dell’anestesia, il Papa chiedeva un foglio «per scrivere di suo pugno, con calligrafia incerta e in lingua polacca, queste parole: “Cosa mi hanno fatto! Ma... totus tuus!”». Un’espressione di stupore e di sconcerto per la sua nuova condizione esistenziale, subito sopraffatta dal rinnovarsi della totale dedizione alla Madonna.
È passato un anno da quando Giovanni Paolo II è morto. La sua fine era in qualche modo attesa da molto tempo, a causa delle malattie che avevano afflitto il suo corpo, eppure nessuno era disposto a credere che si sarebbe verificata in così poco tempo. Già a gennaio dell’anno scorso, tutti i membri della Segreteria di Stato vaticana erano stati allertati ed erano state cancellate ferie e permessi: si sapeva, cioè, che al Papa rimanevano pochi mesi di vita. Nulla però era trapelato all’esterno. L’ultima immagine serena di Giovanni Paolo II, affacciato alla finestra del suo studio per l’Angelus, è quella di domenica 30 gennaio 2005. Papa Wojtyla, nonostante sia febbricitante e influenzato, rimane esposto alla finestra per un quasi un quarto d’ora e libera in volo due colombe bianche insieme ai ragazzi dell’Azione Cattolica. La sua voce è roca e piuttosto bassa, ma nessuno si accorge della malattia. Giovanni Paolo II sorride per l’ultima volta in pubblico, mentre tenta di allontanare la colomba, che com’era accaduto altre volte, invece di prendere il largo rientra per la finestra e passa rasente allo zucchetto bianco del Pontefice.
Già quella sera, e poi il giorno successivo, si susseguono crisi respiratorie. I muscoli della laringe si bloccano. Così la sera di martedì primo febbraio il dottor Buzzonetti decide il ricovero d’urgenza al Gemelli. Il Papa viene curato e già la domenica successiva si affaccia dalla sua stanza per l’Angelus. La febbre viene debellata, i farmaci gli permettono di superare le crisi. Giovanni Paolo II insiste per ritornare quanto prima in Vaticano e giovedì 10 febbraio i medici lo accontentano. Dopo qualche giorno la situazione torna di nuovo drammatica. È necessario un nuovo ricovero e la tracheotomia d’urgenza. Non è facile convincere il Papa a tornare in ospedale.
Domenica 27 febbraio, Giovanni Paolo II riappare da dietro il vetro della finestra al decimo piano del Gemelli. Non parla, saluta soltanto e si tocca il collo con la mano nel punto in cui gli è stata praticata la tracheotomia e inserita la cannula che gli permette di respirare. Poco a poco il Papa si riprende ancora una volta. Ora respira bene grazie alla tracheotomia, fa gli esercizi per deglutire e per imparare ad articolare le parole. Deve riabituarsi a parlare e ci riesce. Il 13 marzo, all’Angelus, arriva la conferma. Dalla finestra del decimo piano del Gemelli, Giovanni Paolo II si rivolge al mondo intero con la sua benedizione ed il saluto: «Cari fratelli e sorelle, grazie della vostra visita...». Solo poche parole, pronunciate con lunghi intervalli e respiri cavernosi. Ma è la prova che il Pontefice può ancora parlare. Quella sera, su una monovolume grigia, Giovanni Paolo II lascia l’ospedale per rientrare a casa, in Vaticano. È l’ultimo viaggio del globetrotter di Dio che ha girato in lungo e in largo attraverso i cinque Continenti: non uscirà più dal suo appartamento nel Palazzo apostolico.
Una settimana dopo il rientro in Vaticano è la domenica delle Palme. La messa in piazza San Pietro è celebrata dal cardinale Camillo Ruini. Il Papa si affaccia dalla finestra del suo studio, ma non parla e non pronuncia neanche la formula della benedizione, limitandosi ad agitare un ramoscello d’olivo. Il Venerdì Santo è costretto a rinunciare a presenziare alla Via Crucis, uno degli appuntamenti più amati. Il Centro Televisivo Vaticano predispone un collegamento video dalla cappella privata del Papa, inquadrato sempre di spalle. L’immagine più commovente è quella dell’ultima stazione, quando Giovanni Paolo II prende con le mani tremanti una croce e la stringe a sé, abbracciandola. Non tiene il crocifisso rivolto verso l’esterno, ma la tiene verso di sé, in un gesto di tenerezza e di abbandono.
La domenica di Pasqua Giovanni Paolo II finalmente si affaccia. Soffre molto, è scosso da tremori. Non riesce a pronunciare neanche una parola della benedizione e si limita al gesto della mano, tra la commozione dei fedeli presenti. «Sarebbe meglio forse che muoia, se non posso compiere la missione affidatami... Sia fatta la Tua volontà... Totus tuus», confida al segretario Dziwisz. L’ultima apparizione, ancora una volta muta, avviene mercoledì 30 marzo.

Il Papa è in preda a movimenti incontrollati, porta spesso la mano sul capo, il volto contratto in una smorfia di dolore. Anche questa volta benedice a gesti, ma non pronuncia parole. È il suo ultimo contatto diretto con i fedeli. Il giorno dopo le sue condizioni precipitano e ha inizio l’agonia.

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