C’erano una volta almanacchi, annuari, strenne. E, nell’800, sotto l’albero o vicino al presepe, gran parte delle famiglie borghesi e proletarie si emozionava leggendo le storie natalizie confezionate da autori più o meno importanti. La ricetta di successo prevedeva quasi sempre vicende edificanti con bambini abbandonati e gesti di generosità filantropica per far versare lacrime copiose prima che l’opulento Cenone restituisse gioia, serenità e ottimismo familiare. Questa moda editoriale fu tanto diffusa che si parlò di «letteratura natalizia» o «di fine anno». Nel genere d’occasione si cimentarono in molti, desiderosi di inseguire il successo del Canto di Natale di Dickens. Lo fecero, ma con tutt’altro spirito, anche gli Scapigliati.
Sui banchi di scuola li abbiamo conosciuti come ribelli, anticonformisti e provocatori, eccentrici sulla pagina come nella vita, anticlericali fino al midollo. Furono la versione italiana dei poeti maledetti francesi, atei, blasfemi, votati a un destino dissoluto e autolesionistico: droga, assenzio, una giovane esistenza destinata al nosocomio e al cimitero.
Scontenti della gestione moderata dell’Italia postunitaria, urlavano contro il tradimento degli ideali coltivati durante i gloriosi anni risorgimentali e scandalizzavano i benpensanti, lanciando strali contro i ceti dirigenti, accusati di essere insensibili alla questione sociale e alla condizione degli umili. La curiosa antologia allestita da Giuseppe Iannaccone, Natale scapigliato (Interlinea, pagg. 174, euro 12) riunisce alcuni dei nomi più importanti della bohème tricolore, ripescando autori minori, alcuni poco noti anche agli addetti ai lavori.
Non manca la nostalgia per l’atmosfera idilliaca e innocente dell’infanzia, in poeti come Emilio Praga e Remigio Zena o in scrittori come Carlo Dossi. Tuttavia prevale la polemica contro la perdita di spiritualità del Natale, vissuto più come un frivolo rito salottiero che come un autentico evento spirituale. Assistiamo così allo sdegno del milanese Ferdinando Fontana per banchetti e orge luculliane, che trasformano l’attesa per la nascita del Bambinello in un’«ebete/ sfida a chi più divora»; oppure alle imprecazioni del genovese Carlo Malinverni contro il «panciuto e buon borghese», che gozzoviglia mentre rimane senza cibo la mesta folla dei «poveri fanciulli» diseredati. Dinanzi a tanta iniquità, il romagnolo Olindo Guerrini si chiede «se Gesù nacque per tutti»: non è vero che il giorno di Natale sia felice, anzi «triste è l’ora/ per l’anime inquiete», vilipese e ignorate da una Chiesa corrotta, popolata anche dopo Porta Pia da preti avidi di potere, traditori del messaggio di pace evangelico: «Fuggi, fuggi da noi, bambino biondo:/ Torna piangendo dal presepe al cielo./ Il Sillabo di Pio cacciò dal mondo/ Il tuo Vangelo».
La decorazione natalizia e la retorica sentimentale che accompagnano l’attesa della Vigilia, in questi testi vengono rovesciate. Gli autori sono accomunati dalla dissacrazione: Camillo Boito, fratello del più celebre Arrigo, parla di «orgia santa della famiglia», e non potrebbe esserci sintesi migliore del Natale degli scapigliati di allora, come dei contestatori del conformismo odierno: livorose condanne dell’edonismo imperante, anatemi contro il materialismo di un demi-monde futile e ipocrita e un repertorio evocativo di malinconie struggenti.
Ce n’è abbastanza per arrivare a una conclusione paradossale: chi oggi volesse riaccendere la dimensione pura e trascendente del Natale dovrebbe leggere i testi composti dai cantori della miscredenza e dell’irreligiosità più famosi della letteratura italiana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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