Abiola Wabara gioca a pallacanestro. Nella squadra di Sesto San Giovanni, serie A 1 femminile. E veste anche la canotta azzurra della nazionale italiana. Wabara è nata a Parma ma ha il colore della pelle dei suoi genitori che vengono dall’Africa, la nazione è la Nigeria. Wabara ha giocato anche in Israele e in Spagna ma soprattutto negli Stati Uniti e, per entrare nella questione, in Texas che non è proprio una terra di luce per le questioni razziali. Eppure in Texas, Abiola Wabara, riuscì a diventare la numero uno, la migliore delle «stranger». Non avrebbe immaginato che qualche anno dopo le avrebbero urlato addosso «scimmia» e «negra di m…». Non nella contea di McLennan, al college di Baylor ma nella robusta provincia lombarda, Como, palazzetto dello sport, partita valida per i quarti di finale tra Pool Comense e Bracco Geas. Tutta robaccia nostrana, i soliti idioti, il branco dei vigliacchi che insulta, ghigna, sputa, offende e se la svigna. Il mondo della pallacanestro ha deciso di reagire, come si usa fare per folklore e propaganda: nel prossimo turno di campionato tutti gli atleti, cestisti e allenatori, si dipingeranno di nero la faccia e le braccia, tanto per far capire che la pelle non conta e siamo tutti uguali. Così fecero anche quelli del Treviso calcio, dieci anni orsono, dopo che un loro compagno di squadra, il nigeriano Omolade, venne offeso e insultato, con i cori di cui sopra, nella partita di Terni, per cui la domenica successiva, contro il Genoa, i ragazzi di Sandreani e lo stesso allenatore, si presentarono nerissimi nel viso e nelle braccia e Omolade segnò anche un gol che a nulla servì perché il Treviso venne retrocesso in serie C.
A nulla servì anche quel gesto dei calciatori, come dimostrano fatti e misfatti di questo decennio, a nulla servirà la decisione presa dalla Federbasket perché la testa degli ignoranti non può essere cambiata da una manifestazione di protesta «colorata» e colorita, perché i signori Pisoni e Cè, arbitri di quella partita della scorsa settimana, hanno avuto il coraggio, si fa per dire, di non scrivere nemmeno una riga sulle volgarità e intemperanze del pubblico che, non trascurate il dettaglio, non è quello di uno stadio di football, trenta, quarantamila persone (comunque tutte eventualmente riconoscibili con le telecamere) ma trattasi di roba piccola, siamo nelle centinaia o nelle migliaia, tra l’altro, rinchiuse nella gabbia del palazzetto, della palestra. Dunque Pisoni e Cè hanno visto falli, trattenute sul parquet ma non hanno avuto orecchie per udire quello che ronzava attorno e così gli altri spettatori omertosi e codardi che nulla hanno fatto per isolare e mandare a quel paese la squadraccia di ignoranti.
Lo sport, non tutte le discipline tuttavia, è diventato un territorio comodo per scaricare tragedie personali, guai familiari, miseria esistenziale. Il limite del vaffa è stato ampiamente superato, anzi è stato legittimato anche politicamente dal comico ligure con le sue adunate, dunque si va oltre, si bestemmia, tanto non è più un reato, si oltraggia, si offende, si molesta e se l’oggetto dell’insulto ha il colore della pelle diverso, allora il gioco è automatico, si torna allo zoo e al cinematografo, la scimmia, king kong, si buheggia, si sventolano le banane di plastica, il negro di m… è il biglietto da visita preferito. Spalmarsi un po’ di pomata nera sul volto e sulle braccia, a parte l’effetto carnevalesco o da Halloween in grave ritardo, non avrà effetti se non per i fotografi e le televisioni. Piuttosto gli atleti, cestisti e calciatori (sono queste le discipline interessate, non risultano problemi nel golf, nel tennis, nella boxe, nell’automobilismo, nell’atletica leggera) posseggono un’arma che finora non hanno mai voluto utilizzare: interrompere il gioco, sospendere la partita, volontariamente, prescindendo dalla decisione dell’arbitro, riunirsi in gruppo, tutti, come fanno quando a centrocampo ripetono il rito per trovare la concentrazione, e trasferirsi poi, come una falange romana o un pacchetto di mischia del rugby, sotto la curva, la gradinata, il settore dei gentiluomini. Non sarebbe una sfida ma piuttosto la «soluzione finale», semplice, intelligente, spiazzante nei confronti dei soliti idioti, non presi a manganellate ma disarmati dai loro stessi idoli. Chi farà il primo passo? Ho dubbi, molti dubbi e per smontare il folklore della prossima giornata di campionato segnalo una storiella che circolava in America negli anni passati. In una scuola texana i bambini bianchi erano privilegiati rispetto a quelli neri, i primi potevano utilizzare il bus con l’aria condizionata d’estate e con il riscaldamento d’inverno, i secondi potevano raggiungere la scuola soltanto a piedi, sotto il sole e sotto la pioggia, oltre ad altre vessazioni in classe.
Forse non è soltanto una storiella.
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