Il Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell, tetralogia romanzesca di cui Clea, ora riproposto da Einaudi nella classica traduzione di Fausta Cialente (pagg. 320, euro 21), è il quarto e ultimo capitolo, è un catalogo di guai fisici e drammi metafisici. Il giovane e ricco Narouz, deformato dal suo labbro leporino, diventerà un estremista della fede perché rifiutato dalla vita; Semira, la donna velata e misteriosa amata da Amaril, è senza naso; la prima amante del futuro ambasciatore Mountolive, si ritroverà sfigurata dal vaiolo, la seconda sarà cieca e avrà alle spalle un rapporto incestuoso con il fratello; la pittrice Clea finirà monca; Justine è stata violentata da ragazzina; Melissa, la tenera prostituta su cui Darley a un certo punto concentrerà il suo bisogno d'amore, è tubercolotica; il cinico e reazionario Pursewarden morirà sucida... Tradimenti, complotti, sette segrete, legami sentimentali plurimi, omo e etero, meditazioni sacre e considerazioni profane corrono per le mille pagine dedicate dallo scrittore britannico, fra il 1957 e il 1960, alla città che lo aveva stregato. E da questo museo degli orrori viene fuori la più incredibile elegia scritta intorno a un luogo e al suo potere di attrazione: «La capitale della memoria. Ai suoi innamorati può dare tutto, esclusa la felicità».
Più che una città, Alessandria fu per Durrell, ma non solo per lui, una costruzione della mente, fascinazione che aveva già percorso tutto l'Ottocento, quando i francesi scoprirono l'Egitto e ne rimasero incantati. Lentamente Alessandria rinacque allora, dopo il sonno plurisecolare che aveva seguito la fondazione prima, l'età dei Tolomei e il dominio di Roma dopo, il corteo lussureggiante di nomi e di luoghi, Cesare e Cleopatra, Cleopatra e Antonio, Teocrito e Callimaco, Berenice e la sua chioma, Ario e Atanasio, la vergine Ipazia straziata dai gusci di ostrica usati sul suo corpo a mo' di coltelli, il Mouseion e il Serapeum, le colonne di Pompeo... Scriverà Kavafis: «Come un uomo preparato, come un uomo coraggioso/ di' addio ad Alessandria mentre si sta allontanando/ dille addio mentre la stai perdendo»... Quella da Durrell raccontata è un' Alessandria fra le due guerre in cui si ammucchiavano «cinque lingue, una dozzina di fedi, cinque flotte, ma più di cinque sessi e solo un greco del popolo può distinguerli», ricca e corrotta, miserabile e gioiosa.
Lawrence Durell è uno scrittore che i critici letterari snobbano e i lettori amano e paradossalmente per le stesse ragioni. C'è un preziosismo o, se si vuole, una bella prosa, una qualità di scrittura che suscita il sospetto dei primi, che lo vorrebbero imbalsamato per poterlo meglio sezionare in tranquillità, e l'entusiasmo invece dei secondi, i quali capiscono perfettamente come la materia narrata sia tutt'uno con il modo di narrare, il grottesco, il macabro, il notturno che modellano uno stile e lo rendono inconfondibile e insieme incredibile.
Inglese sui generis, nato nel 1912 in India e vissuto per gran parte della sua vita altrove, Alessandria, appunto, ma anche Parigi, e poi Il Cairo, Atene, Corfù, Rodi, Cipro, la Provenza, Durrell era da un lato consapevole che «la vita inglese è come un'autopsia. Cupa, cupissima» e dall'altro che nei suoi connazionali all'estero rimaneva una sorta di imprinting, fatto di stranezze e di stravaganze, complessi di inferiorità uniti a un innato complesso di superiorità, tic e manie.
Si potrebbe obiettare che il catalogo di perversioni assortite di cui l'Alessandria di Durrell rigurgita, lo si sarebbe potuto trovare tranquillamente anche a Londra. Da Gloucester a Beckford a Lewis Carroll, passando per Byron e Wilde, la lista di bordelli, pederasti, pedofili, pazzi, santi e invasati è sterminata. Solo che in Inghilterra il clima, il rigore morale e il moralismo come suo corollario, le gerarchie sociali e il conformismo che le pervade, fanno di ogni trasgressione una minaccia e un delitto, trasformano la ricerca del piacere in una colpa da espiare e rendono il clima irrespirabile. Mentre Alessandria, ovvero la parte per il tutto di un'etica e di un'estetica greco-latina, il suo «lassismo spirituale, il suo sibaritismo» rimandano per Durrell «a ogni xenofilia, nel senso greco della parola». Gli alessandrini erano «degli stranieri, degli esuli» e Alessandria era ancora «Europa, la capitale dell'Europa asiatica, ammesso che potesse esistere qualcosa del genere», una città «dove si sapeva che il piacere era l'unica ragione e scopo dell'attività umana».
Il Quartetto di Alessandria è un unico romanzo raccontato in quattro differenti versioni, e quella di Clea è la sola a situarsi cronologicamente in un altro tempo, relativamente più tardo, sette, otto anni, rispetto ai precedenti, ma in un'Alessandria ferita dalla Seconda guerra mondiale: «Tutto era come prima, ma allo stesso tempo incredibilmente diverso» dice Darley, l'io narrante dell'autore: non c'è più l'incanto, anche crudele, della città, né la possibilità di lasciarsi vincere dal suo mitico passato. E infatti Darley ci torna non per una proustiana ricerca del tempo perduto, ma, come nota Filippo Bologna nella sua introduzione, «per liberarsi una volta per tutte da ciò che lo tiene ancora legato ai luoghi e alle persone».
Il titolo rimanda al terzo e ultimo personaggio femminile del Quartetto, dopo quello di Justine, che lo aveva tenuto a battesimo, e di Melissa che lo aveva proseguito, l'una e l'altra amate da Darley e poi da lui perdute, perché, avverte l'autore, niente è come sembra e ogni affermazione contiene in sé la sua negazione. Fedele ai miti e al mondo greco, loro tramite Durrell mette in scena tre immagini archetipe: la seduzione della prima, moderna-eterna Afrodite, la devozione della seconda, novella Era, la dedizione della terza, Artemide di nuovo sulla terra. Dedizione a sé e agli altri, perché Clea è sì indipendente e competitiva, ma è anche l'elemento femminile che con il suo amore per Darley alla fine libererà quest'ultimo dal suo blocco creativo, permettendogli di essere «un vero essere umano, un artista, finalmente».
Più scopertamente che nei tre libri che lo precedono, cioè Justine, Balthazar e Mountolive, in Clea Durrell gioca a carte scoperte e fa giocare con lui il suo lettore. Il suo intento, scrive, «è un continuum che contenga non un temps retrouvé ma un temps délivré (). Immagino una forma che, se compiuta, potrebbe esprimere in termini umani i problemi della causalità o della indeterminatezza (). La solita storia della Ragazza che incontra il Ragazzo, null'altro. Ma trattato in questo modo non ti succederà, come a molti dei tuoi contemporanei, di trovarti che vai tagliando pigramente una linea perforata!».
Anche Clea supererà la sua crisi creativa, pagando però cara la vittoria. Nell'Eden terrestre di Durrell c'è sempre un elemento distruttivo, un gusto morbido e languido per l'orrore, lo stravagante, il perverso. La sua giovinezza era coincisa con l'età dell'ansia di Auden, con la terra desolata di Eliot, l'Europa e il mondo fra le due guerre, quando ogni lume andava spegnendosi in attesa della nuova ecatombe. Da qui la confusione e l'alienazione che popolano Il Quartetto di Alessandria e che in Clea vengono raccontati da un narratore non più onnisciente, ma in prima persona e che ha la consapevolezza che «si è schiavi di forze da sé stessi scatenate», azioni «che si protendono e si gonfiano verso un avvenire che i mortali non sono assolutamente in grado di determinare e di stornare».
Solo l'artista, vuole dirci Durrell, «può far realmente accadere le cose», sorta di infelice demiurgo senza altro potere che quello di dare un senso al non senso della vita, estrema illusione sulla scrittura come antidoto all'unica certezza: morire, essere dimenticati, una manciata di polvere fra le rovine della storia.
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