Quattrocento vigilantes in rivolta danno l’assalto a Montecitorio

da Roma

«Non siamo invisibili», urlano i metronotte infuriati, «e il governo ci deve sentire». Si fanno vedere infatti, schierati tutti e quattrocento sotto l’obelisco del faraone Psammetico II. Si fanno pure sentire quando, alle dieci del mattino, sganciano una bomba carta e, al popolare grido «ente siamo ed ente restiamo», si lanciano verso la Camera. Pugni, schiaffi, parapiglia, sudore, lacrime, tensione, slogan, una corona di fiori con scritto «è morta la giustizia», due svenimenti, un’ambulanza, la paura degli uscieri di Montecitorio: «Chiudete il portone, chiudete». Dura poco, solo un paio di minuti, finché le divise blu della polizia non riescono a respingere le divise nere dei vigilanti oltre le transenne e a ristabilire l’ordine, senza nemmeno sbarrare il Parlamento. E nel pomeriggio i rivoltosi vengono persino ricevuti a Palazzo Chigi, dove ottengono l’apertura di un tavolo di trattativa.
In tremila anni Roma le ha viste tutte. Ora vede anche questa, il tragicomico assalto al palazzo d’inverno del potere da parte dei metronotte, lanci di bombette e disordini vari provocati da chi in genere dovrebbe vegliare sulla sicurezza dei cittadini. Aldo Fabrizi infilava il bigliettino nelle saracinesche dei negozi, i vigilanti dell’Urbe di oggi invece infilano una protesta sorprendentemente dura contro l’ipotesi di staccare l’istituto dall’associazione nazionale combattenti e reduci, di cui ne è una storica emanazione. «Ci sono persone che non riescono a pagare il mutuo - spiega il segretario nazionale della Sinalv Cisal Renato Sartori - perché da tre mesi percepiscono uno stipendio al sessanta per cento. Siamo passati da una situazione di stabilità a una di precarietà».
Le guardie giurate non vogliono perdere tutte le garanzie contrattuali di cui adesso godono in quanto dipendenti para-pubblici. «Siamo in piazza per dire no alla privatizzazione e al commissariamento nel nostro ente - aggiunge Vincenzo Del Vicario, del sindacato autonomo Savip -. Non si può applicare la legge Prodi-bis alla nostra situazione, perché è una normativa riservata alle aziende private mentre noi siamo un ente morale. Vogliono scorporare l’Urbe dall’associazione reduci per poi ricostruirla sotto forma di cooperativa, ma non possiamo rimetterci noi per salvare i vertici dell’Ancr che hanno portato al fallimento i conti dell’ente».
Da qui la contestazione, un po’ drammatica e un po’ sgangherata, messa in scena in piazza Montecitorio. «Ma noi non volevamo fare del male a nessuno - si giustificano Sartori e Del Vicario -, volevamo soltanto portare alla luce la situazione di 850 persone. Anzi, in quanto dirigenti sindacali, abbiamo come al solito controllato che non ci fossero incidenti». E la bomba carta? «Non era una bomba, era solo un petardo». E l’assalto al palazzo? «Non era un assalto, cercavamo solo di andare a parlare con alcuni politici che erano davanti a Montecitorio».
Sarà. Ma dopo il corpo a corpo il funzionario di polizia è riuscito a riportare le guardie giurate dietro le transenne solo dietro la promessa di un incontro con il governo. Detto fatto.

Una delegazione di cinque sindacalisti è entrata a Palazzo Chigi e ne è uscita con la promessa di un incontro martedì prossimo. «Siamo soddisfatti dell’impegno - commenta Roberto D’Agostini, Sdl - e preciso che non ce l’avevamo con la polizia».

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