Quegli artisti troppo «politici» che si mettono da soli nel ghetto

Una produzione limitata di t-shirt con la scritta «Lele libero» potrebbe diventare l’oggetto di culto sulle spiagge italiane dell’estate 2011, così come le borsette di tela inneggianti ad Ai Weiwei sono state il gadget più inseguito all’inaugurazione della Biennale di Venezia. Nel frattempo all’artista cinese (dissidente che ha però lavorato più volte col regime di Pechino) sono stati revocati gli arresti domiciliari: pare abbia confessato qualche peccatuccio e un’evasione fiscale, i reati attribuiti a Mora, che peraltro non è riuscito finora a raccogliere un movimento d’opinione credibile in sua difesa.
L’ultima mania dell’ipocrita mondo dell’arte è quella di firmare appelli, scrivere lettere ai giornali, organizzarsi in sedute carbonare. Con due scopi. Del primo abbiamo detto, è la firma intelligente stile Greenpeace che ha il potere di mettere insieme la superstar e lo sfigato, la signora bene che sente un fremito di altruismo e il militante invecchiato. Il secondo è specchio del conformismo più banale, diventato l’ultima moda: la mia firma per un rifiuto. Se qualcuno ti invita a cena e non hai voglia di andarci, basta simulare un mal di testa o inventare una scusa qualsiasi. Se un critico ti invita una mostra, invece, sei diffidente, prendi informazioni sul progetto, chiedi chi sono gli altri (maleducazione senza limiti), qual è lo spazio, ti assicuri di condividere con il responsabile una linea politica. Tutto ciò perché il lavoro degli artisti va difeso, manco i curatori fossero dei cretini con l’unico scopo di rovinare la fatica altrui. Talvolta succede che un artista dica, civilmente, no, basta una telefonata o un sms. Invece i nuovi eroi in difesa della purezza affidano il proprio pensiero alla stampa, dopo aver radunato a sé gli indecisi e gli incerti. Da quando hanno assistito al successo dei recenti referendum, chi li tiene più? E come non hanno capito che cosa diavolo succederà con l’acqua pubblica e privata, allo stesso modo firmano una lettera contro chi li invita senza sapere bene perché hanno deciso di starsene a casa.
La loro poetica sono in pochi a conoscerla, il loro nome, adesso, qualcuno in più. «Sono quelli che hanno detto no a certi critici prezzolati e di destra», li additano gli altri con rispetto. Eppure, questi coraggiosi, mai che qualcuno li inviti nelle mostre che contano (ovviamente di sinistra), in un bel museo dall’acronimo facile, in una fondazione fighetta. Due settimane dopo il rifiuto torneranno nel limbo da cui sono faticosamente emersi fino a quando un critico «di destra» ma curioso e non prevenuto, avrà perdonato ancora una volta.


Toccherà spiegare loro, una volta per tutte, che la storia ricorda solo chi c’era e che nei cataloghi delle Biennali e delle grandi mostre vengono pubblicate le opere esposte. Non esiste ancora un annuario degli auto-esclusi. Come diceva Blasco, «c’è chi dice no», ma non gliene frega niente a nessuno.

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