Quegli ultrà che hanno ancora paura dei Savoia

Federico Guiglia

Sessant'anni di Repubblica, ma l'ultimo sovrano d'Italia, simbolo di una dinastia legata da secoli alla nostra Nazione, e che l'unificò, riposa ancora all'estero: da ventitré anni la salma di Umberto II, il malinconico «re di maggio», attende di poter rientrare in patria. E da un tempo ancora maggiore aspettano i suoi genitori, Vittorio Emanuele III e la regina Elena, sepolti anch'essi «in terra straniera». In Italia non mancano scuole, ospedali, strade o piazze a loro intitolati. Ma né per l'uno né per l'altra è stato aperto il portone pur grande del Pantheon, dov'è omaggiato Vittorio Emanuele II, «padre della patria».
C'è un'evidente disparità non solo di trattamento, ma di scelte politiche tra il dire e l'agire, quando la politica è chiamata a fare i conti col passato che, per alcuni, non passa. Nel suo primo appello per il primo 2 giugno vissuto da capo dello Stato, Giorgio Napolitano non ha mancato di ricordare l'anniversario repubblicano «con rispetto anche per quanti espressero nel referendum il loro attaccamento all'istituto monarchico». Per la cronaca: non un piccolo e balordo club di nostalgici, ma metà dell'Italia dell'epoca. In più, Napolitano ha sottolineato che il patriottismo non può essere «vuota retorica». Ma retorica rischia di rimanere, se ai buoni propositi istituzionali di riconciliazione nazionale non seguono e non seguiranno gli atti politici. Sessant'anni dopo, non basta più dichiarare rispetto per l'Italia sconfitta, senza reinserirla pienamente nella storia del presente. Basta allora col tabù monarchico, si metta fine a questa odiosa discriminazione sui morti, dopo che tanta fatica è costata abolire quella per i vivi; e con una cavillosa interpretazione costituzionale che ha reso possibile il rientro dell'attuale Vittorio Emanuele e del figlio Emanuele Filiberto, persone del tutto «innocenti», cioè sui quali per ragioni di anagrafe non poteva pesare alcuna polemica istituzionale, politica o ideologica in confronto ai loro padri. Eppure, anch'essi hanno atteso, e più di mezzo secolo, per tornare o nel caso di Emanuele Filiberto «scoprire» la loro terra. Complicare le cose semplici, ecco la specialità politica di chi rifiuta di storicizzare avvenimenti lontani, e percepiti in modo persino più lontano di quanto effettivamente siano. La stessa scomparsa di Umberto II, che pure risale ad «appena» un quarto di secolo fa, ormai s'intreccia con la vicenda archiviata dei Savoia. E tuttavia il fantasma monarchico aleggia in ampi settori del progressismo repubblicano, quasi che il ritorno delle salme potesse portare a riscrivere la storia (se non addirittura a influire sull'avvenire dell'istituzione scelta nel '46!).
Né ai diffidenti sorge il sospetto che una qualche forma di potere monarchico sia già tra noi, e ampiamente digerita dai cittadini, e controbilanciata con equilibrio da altri poteri. Come altrimenti considerare le prerogative attribuite dalla Costituzione a un capo dello Stato che dura ben sette anni, che è rieleggibile, e che nelle tre penultime presidenze - quelle di Cossiga, di Scalfaro e di Ciampi - ha lasciato forte traccia di sé?
Non possono esserci ragionevoli perplessità, dunque, nel chiudere in fretta questo capitolo. A meno che non ci si rassegni a restare inchiodati all'anacronismo del radicalismo -e non quello di Pannella -, che punta sempre più a condizionare l'azione del governo e le aperture delle istituzioni. Ma aver paura dei Savoia, morti o vivi, significa non già fare un dispetto alla memoria divisa, bensì gettare del rancore sul nostro futuro condiviso.
f.

guiglia@tiscali.it

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