La sfida tra Italia e Germania mi ha sempre intrigato. Forse perché è stata la mia «prima» partita di calcio da spettatore. In realtà nel 1970 avevo solo sei mesi, ma in culla ero stranamente tranquillo e con gli occhi sbarrati mentre mio padre si esaltava per il gol del 4-3 di Rivera davanti al piccolo Voxson in bianco e nero. Poi a 12 anni, già con il sogno di fare un giorno il giornalista, il Nordmende a colori mi fa vivere la finale del Bernabeu, già giocata nel pomeriggio sull’asfalto sotto casa. Mia madre, per celebrare il trionfo, cucinerà gli spaghetti tricolore (semplicemente pomodoro e basilico). Mancava solo la partita seguita dal vivo ed ecco l’occasione: primo mondiale da cronista, prima semifinale per l’Italia dopo 12 anni, sfida ai tedeschi in casa loro. Il 4 luglio 2006 il Westfalenstadion di Dortmund sembra un grande tappeto bianco, alla Nationalmannschaft un’intera nazione chiede l’impresa. E io sono fra gli oltre 1500 giornalisti accreditati. Vorrei fare il tifo, ma c’è l’esigenza di raccontare la sofferenza e il cuore degli azzurri.
Poi il gol di Grosso e il suo urlo, il bis di Del Piero che ricaccia in gola quello dei tedeschi. La mia esultanza è irriverente e poco professionale, ma qualche fila più sotto il povero Alberto D’Aguanno è più indiavolato di me. Si andrà a Berlino a vincere la Coppa, ma la partita della mia vita resterà questa.Quei gol da urlo che valgono più di Berlino
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