Quei newyorkesi snob innamorati cotti della cucina toscana

Oportet etiam inter cenandum philologiam nosse ovvero: «Anche per desinare bisogna far uso dei principi della scienza». Così argomentava Petronio Arbitro, nel suo Satyricon, ai tempi di ferro di Nerone imperatore. E proprio in forza di questa sua asserzione pragmatico-sapienzale, lo stesso Petronio, fosse vissuto ai giorni nostri, avrebbe consentito largamente con le idee tutte originali, volitive di Bill Buford.
Questi, giornalista di chiara scuola anglosassone, già ideatore del periodico letterario Granta e colonna del sofisticato New Yorker, si è proposto con esemplare acribia di perlustrare, sperimentare e, se del caso, dissacrare, col suo libro icasticamente intitolato Calore (Fandango, pagg. 434, euro 20) miti e misteri del tanto reputato «mangiare italiano». E, in ispecie, della cucina toscana praticata nei ristoranti d’élite in America e, massimamente, nelle zone autoctone del Chianti e delle colline senesi.
Calore risulta, in effetti, un libro davvero originale per tanti versi. Per concezione, per realizzazione e per singolarità tematica. Il sottotitolo, benché prolisso, spiega bene qual è, com’è l’intento di fondo cui si rifà il suo autore: «Le avventure di un dilettante come sguattero, cuoco di partita, pastaio e apprendista di un macellaio toscano che recita Dante». Ce n’è di che - come si intuisce subito - per essere prima incuriositi, poi presto risucchiati in vicende, episodi, per quanto bislacchi e insoliti, talora semplicemente strani, talaltra al limite del grottesco, dell’incredibile.
Ovvio che la sapienza letteraria e la fantasia di Bill Buford giocano un ruolo importante in simile, eccentrica impresa narrativa. Ma, a pensarci a mente fredda, la storia cui s’ispira Calore non è poi così incongrua come potrebbe sembrare al primo impatto. Buford, con le frequentazioni, le esperienze culturali-esistenziali che ha assiduamente coltivato - cioè quel background tipico dell’intellighenzia newyorkese nutrita di cinismo, consuetudini ultrasnob, miti e riti sociali e comportamentali elitari - si ritrova a intrigarsi (fors’anche più del dovuto) nei maneggi culinari, gastronomici di un ristorante italiano molto esclusivo, dal titolo indicativo «Babbo», luogo di delizie del palato governato con dispotico estro dal rinomato chef Mario Batali. Nasce così, nel protagonista che si fa voce recitante di Calore, l’idea di intrufolarsi, sotto mentite spoglie, tra cuochi e sguatteri di cucina, giusto per capire «dal di dentro» quel che accade davvero in quell’antro delle meraviglie.
E sarà questa un’avventura tracimante di «scoperte» ora esaltanti, ora desolate di ciò che è l’arte di cucinare e, ancor più, di far da mangiare in modo assolutamente impareggiabile. Tanta e tale la meraviglia del nostro «esploratore» da finire persino in un paesino del Chianti mezzo schiavizzato da un tale Dario Cecchini (maniacale cultore di Dante) che lo inizia ai «misteri» delle mucche chianine e, in ispecie, a come si taglia la carne di quegli stessi animali.

Salvo scoprire, infine, che quest’ultimo è soltanto un abilissimo imbonitore che contrabbanda volgari mucche spagnole per le rinomate chianine.
Calore è una lettura, come si diceva un tempo, autenticamente amena poiché, mentre sbugiarda certi vizi e vezzi praticati da pretenziosi tangheri, ricrea, diverte, dissacra con irruenta, devastante arguzia.

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