Sappiamo bene che durante le guerre civili, più che in qualsiasi altro evento, popoli interi rivelano la parte più ferina e crudele dell'essere umano. Lo abbiamo sperimentato anche in Italia, con una ferita ancora aperta proprio perché i vincitori non hanno mai voluto riconoscere del tutto che anche fra di loro non mancarono atti di violenza inutile e feroce. La guerra civile spagnola del 1936-39 non fu diversa, ma il vincitore Francisco Franco ebbe il coraggio e l'intelligenza politica di riconoscere che anche i vinti erano caduti per una loro idea di patria, per esempio con il grande cimitero che accolse i caduti di entrambe le fazioni. Ma anche da noi, oggi, lo sdegno sarebbe unanime se qualcuno profanasse le tombe e la memoria di chi combatté dalla parte dei vinti, e quello che è accaduto ieri a Roma non ha nessuna giustificazione, né storica né politica né sociale né religiosa.
Era il giorno della beatificazione di 498 martiri della guerra civile spagnola, nella stragrande maggioranza religiosi di vari ordini e grado, uomini e donne, molti giovanissimi, molti altri anziani. Già nel 1934, nella Spagna repubblicana e comunisteggiante, furono uccisi due religiosi, ma il grosso della carneficina avvenne nel primo anno della guerra: frati, suore, preti, monache tirati fuori dai conventi, dalle parrocchie, dagli ospedali, a volte torturati, sempre uccisi a freddo, i cadaveri esposti al dileggio come le reliquie, le ostie, i crocefissi.
Storicamente si può tentare di capire e spiegare il perché di tanto odio. La Chiesa aveva da secoli un potere immenso nella cattolicissima Spagna, e il clero veniva considerato dai rivoluzionari di sinistra lo strumento e il complice di un potere che si voleva abbattere e cancellare anche facendo pagare ai vivi le colpe dei morti. Poco importava che diciotto avessero fra i 16 e i 19 anni, o che altri avessero trascorso l'intera esistenza in monastero a pregare, o nelle strade a aiutare i poveri.
I giovani dei centri sociali che ieri hanno manifestato davanti a una Chiesa contro la beatificazione, seguivano la stessa logica degli assassini dei 498 religiosi: «Chi ha ucciso, torturato e sfruttato non può essere beato», c'era scritto sul loro striscione. Con una sicurezza pari soltanto alla propria ignoranza, attribuivano alle vittime innocenti la responsabilità di colpe non loro. È un'ignoranza che non riguarda soltanto la storia dei rapporti secolari fra Chiesa e Spagna o quella degli Anni Trenta del Novecento, ma anche i nostri giorni. La molla che ha spinto i manifestanti, infatti, è la certezza che la beatificazione sia una mossa vaticana contro Zapatero e le sue riforme, che dispiacciono a molti cattolici, in Spagna e fuori. Evidentemente nei centri sociali si ignora che i processi di beatificazione durano quasi sempre alcuni decenni, e che la maggior parte di quei processi iniziarono fra il 1948, quando Zapatero non era ancora nato, e il 1960.
È pur vero che la Chiesa può accelerare una beatificazione per fini contingenti. Un alto prelato di curia, anni fa, dichiarò ai giornali, tranquillamente, che Giovanni Paolo I amava portare «in regalo» un nuovo beato locale, durante i suoi viaggi. Io stesso più di vent'anni fa ho scritto un libro, che suscitò polemiche a non finire, per dimostrare che la beatificazione e la canonizzazione di Maria Goretti furono volute e fortemente accelerate da Pio XI per dare un esempio eroico di castigatezza nel mondo appena sconvolto - anche nei costumi sessuali - dalla Seconda guerra mondiale. Ma avevo studiato i processi penali e quelli canonici, in latino, e non negavo alla Chiesa il diritto di fare santo chi vuole.
Quelli che manifestavano contro i nuovi beati, del resto, sono con ogni probabilità gli stessi che in altre occasioni scandivano nei cortei «Dieci, cento, mille Nassirya»: inglobano in un'unica visione di odio di classe clero e soldati, simboli di un potere che si vuole abbattere gridando sguaiatamente nelle piazze senza sforzarsi di conoscere e capire la storia. Che appartiene tanto ai vincitori quanto ai vinti.
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