Quei ragazzacci dei Blues Brothers «A tutto ritmo anche senza Belushi»

La band guidata dal mitico Steve Cropper conquista il Blue Note di Milano

Antonio Lodetti

da Milano

Ci sono canzoni che piombano nel mito fuori dal contesto in cui sono nate. Canzoni che la gente balla e ama perché il ritmo entra nella testa e nel cuore, e non conta se si tratta di vecchi blues. L’importante è il divertimento, la spettacolarità, un pizzico di trasgressione e autoironia: tutti ingredienti che i Blues Brothers - anche senza il carisma di John Belushi - mettono in pista nei loro travolgenti concerti, che per tre notti hanno trasformato il Blue Note di Milano in una succursale del West Side di Chicago. Ci danno dentro da matti con la tensione di Soul Man, l’enfasi gospel di Everybody Needs Somebody, con la ammiccante colloquialità di un r’n’b che non passa mai di moda. Amarcord un po’ sfuocato del celebre film di John Landis? Chiedetelo a tutti quelli che in sei concerti - due per sera - s’è spellata le mani nell’applauso, nel ripetere in coro l’onomatopeico «aidaidiaidiai, oidioidioidioi» della Minnie the Moocher di Cab Calloway, nella danza sfrenata. Un pubblico di bocca buona, che ama più l’evento trendy che la buona musica, si dirà. Ma paradossalmente i Blues Brothers, senza Belushi, hanno un valore aggiunto. Pescano sì nel pubblico che ha scoperto il blues grazie alle surreali peripezie dell’attore in coppia con Dan Aykroyd; ma anche in quello, di appassionati, che ama da sempre i gloriosi membri della band come Steve Cropper (autore di classici di Otis Redding, chitarrista di Booker T. & the MG,s, considerato dalle riviste specializzate il miglior chitarrista di tutti i tempi dopo Hendrix), «Blue» Lou Marini al sax, senza parlare del vecchio cantante Eddie Floyd, ospite d’onore con il suo classico Knock On Wood.
«La band è nata prima del film dalla passione di Belushi e Aykroyd - ricorda Cropper -;in un momento in cui imperava la disco music. L’obiettivo, oggi come allora, è quello di dare una veste attuale al blues senza renderlo troppo commerciale». Già, ma il loro marchio è sempre una miniera d’oro. «Alla fine degli anni 50 ho contribuito a inventare il rhythm’n’blues fondendo gospel, soul e pop. Ho scritto brani come Sittin’ On Dock of the Bay, se sono rimasti nella storia non è colpa mia. I nostri pezzi sono un linguaggio internazionale: siamo stati in Giappone, ora andremo in Turchia ma appena intoniamo Soul Man tutti cantano in coro. È una magia». La magia che ha dentro chi «sente» il fuoco del blues, come Robert Paparozzi, che ha raccolto la pesantissima eredità di Belushi (stesso fisico tozzo)zampettando e dannandosi l’anima da navigato showman-umorista-cantante e da esuberante armonicista (molto apprezzati i suoi assolo a spasso in mezzo al pubblico). «Ora John è il nostro nume tutelare - prosegue Cropper - e la nostra è una grande famiglia: tra un po’ saremo dei vecchietti terribili. Mi sento come in una riserva indiana: Otis Redding, Wilson Pickett, John Lee Hooker sono morti. Per fortuna c’è il mio maestro Bo Diddley; il nostro show è anche un omaggio a tutti i grandi che non ci sono più». Soldi, accoglienze trionfali, festival, tournée: tutto meraviglioso, tutto senza una stecca? Sulle loro teste pende l’accusa di aver tradito il blues. Ma come - dicono alcuni - avete trasformato un brano dolente del «maledetto» Robert Johnson come Sweet Home Chicago in un inno ludico e caciarone.

«I tempi cambiano - chiosa Cropper - i Blues Brothers rispettano la tradizione, ma sono nati per divulgare il blues attraverso la gioia e la spettacolarità. Nel concerto ci sono mille sfumature, da quelle più scatenate a quelle sofferte del lento Shotgun Blues, sofferente, triste, uno dei preferiti di Belushi».

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