Quei rivoluzionari dalla barricata alla barrique

Caro Paolo, quando uscì il Tavernello ricordo i commenti feroci di mio nonno contadino, amante del vino buono e della genuinità senza bisogno di slow food. Per cui ho pensato molto prima di darti questa mia adesione. Però credo che se mio nonno oggi fosse ancora vivo, forse sarebbe così irritato da tutti questi che «avvinano allappando in modo complesso e strutturato», di quelli che straparlano di «sapore polposo di banana struggente» soltanto per cercare di stupire gli amici, che forse, alla fine, si convertirebbe al Tavernello pure lui. Ci hai fatto caso? Ormai non c’è più un rivoluzionario che non sia passato dalla barricata alla barrique e se non hai scritto almeno un saggio sulla coscienza artistica del brachetto e sul meticciato del vitigno non sei nessuno. Dalle lotte alla botte, barbera rossa, la trionferà. Ho scritto un libro che si chiama «Siamo fritti» (tu ne hai anche gentilmente parlato ai tuoi lettori) in cui ho espresso più o meno queste idee. Per cui oggi ho deciso: nel club del Tavernello ci voglio essere anch’io. Non posso non esserci anch’io. Mio nonno capirà. Che ci volete fare? Siamo fatti così. Gente semplice. Al SensoOfWine degli slowfood preferiamo il buon senso delle vecchie osterie. Agli ubriachi di parole, gli ubriaconi veri. Sarà pure Tavernello, ma almeno è vino sincero.

Direttore di Studio Aperto Milano
Noi del Circolo del Tavernello ti aspettavamo, caro Mario. Il tuo Siamo fritti (Mondadori editore, repetita juvant) è uno dei nostri più diletti e consultati breviari. Sì, lo so e lo hai anche ricordato nel tuo libro, Nico Orengo risulta fra gli autori del più bischero dei Quaderni di Micromega, Il cibo e l'impegno, dove si discettava sulla valenza culturale, «ma anche di liberazione e di riscatto sociale» delle vettovaglie, sulla «metafisica dello champagne», sulla mozzarella che per Lidia Ravera, ti cito, deve essere «bianca», ci mancherebbe, «morbida», credo per poterla distinguere dal Parmigiano e «masticabile». Tuttavia, credimi, anche il Di viole e liquirizia di Nico Orengo potrebbe ben figurare nella biblioteca dei soci del Circolo del Tavernello. Ma all'Einaudi, dove tutti hanno la tessera dello Slow Food e stravedono per Aimo e Nadia, «i due chef più rinomati di tutte le Michelin» che imbandirono una memorabile cena (sociale?) al Leonkavallo, all'Einaudi dove non bevono il vino ma l'etichetta sulla bottiglia e in un centello di Barbaresco rinvengono centotrentadue «sentori» ivi compreso quello, leggendario, di cuoio bulgaro e probabilmente anche «il sapore polposo della banana struggente», storcerebbero il naso. E figuriamoci se gente come noi, affabile e bendisposta, va a sfruculiare la gloriosa casa editrice dello Struzzo. Non se ne parla nemmeno.
La tua adesione, caro Mario ci onora e ci lusinga. Ora non manca che essere invitati da Bruno Vespa a «Porta a porta» ed è fatta. Una cosa però non mi torna e magari tu potresti darmi una mano per chiarirmi le idee. Questa: il fatto di essere così numerosi - abbiamo più soci di quanti votano lo Sdi di Enrico Boselli - e determinati a «portare avanti» l'istanza tavernellesca (come ben sai non siamo semplicemente ostili alla retorica del vino, ma a tutte le magniloquenze, alle frasi fatte, agli slogan, al pensiero preelaborato, al conformismo di massa, a tutto ciò che è imposto perché «di tendenza», ai film e ai romanzi che ci devono per forza piacere, al linguaggio tronfio e vuoto di certa politica, alle ipocrisie multietniche, al relativismo culturale, allo sbracamento dei costumi e al vezzo girotondino di dare del tu) non è che comporta l'automatica appartenenza alla società civile? Te lo chiedo perché dopo una vita spesa a stare alla larga da tromboni e intellettuali, che poi sono la stessa cosa, non vorrei ritrovarmici a braccetto.

Capisci bene che se così fosse non basterebbero mille ciucche di Tavernello per farmene una ragione.
Paolo Granzotto

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