Quei robot che hanno fatto storia

D opo quella sugli anni Ottanta alla Villa Reale di Monza, ci spostiamo a Lugano per godere di un’altra grande mostra «milanese» nell’anima e nel concetto. Il titolo, «Corpo Automi, Robot», sembra appena uscito dai palinsesti cinematografici natalizi, quelli che in questi giorni declamano il successo internazionale di «Avatar», fantascientifica vicenda di androidi tutti blu sul pianeta Pandora. L’attesa trepidante dell’uscita anche nelle sale italiane della pellicola in 3D sembra confermare, al di là del marketing, l’attualità del pensiero del critico d’arte newyorkese Jeffrey Deicht, che nel ’92 preconizzava «un’era postumana caratterizzata dalla ricostituzione dell’io». La ricca mostra ticinese a cura di Bruno Corà e Pietro Bellasi in corso fino a fine febbraio al Museo Cantonale si tuffa nel sogno leonardesco per sviscerare l’irresistibile fascino dell’uomo automatico o della macchina umanizzata, attraverso il pensiero e l’azione di scienziati e artisti di ogni tempo.
L’anima milanese di questa esposizione, che vede anche il contributo del nostro Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia e raccoglie la rappresentazione di automi e androidi dalla Grecia classica (già) ai giorni nostri, sta soprattutto nella presenza di artisti chiave che hanno sottolineato il mito e il nodo attrazione-dannazione del rapporto uomo macchina; quel rapporto che ha contagiato la letteratura da Frankstein in poi, il cinema da Metropolis a Blade Runner e, appunto, l’arte nelle sue più audaci manipolazioni tra natura e artificio. A cominciare, dicevamo, dal «milanese» di Vinci, di cui la mostra svizzera annovera sei modelli storici di macchine leonardesche costruite a metà del secolo. Proprio di Leonardo è il primo progetto documentato di un robot umanoide realizzato attorno al 1495; sui suoi appunti, riscoperti negli anni Cinquanta, i disegni dettagliati di un cavaliere meccanico, idea probabilmente fondata sulle sue ricerche anatomiche registrate nell’Uomo di Vitruvio. Milanesissimi furono i futuristi, qui a Lugano ampiamente rappresentati con opere, disegni e sculture di Balla, Depero, Prampolini e Pannaggi. Fu proprio Tommaso Marinetti, nel suo celebre Manifesto ma ancor di più nell’«Uomo moltiplicato e il regno della macchina», il primo teorico ad esaltare l’idea della bellezza meccanica. La città della Madonnina, come ben documenta la mostra di Corà, fu negli anni Cinquanta teatro dell’incontro tra altri due personaggi simbolo di questo percorso, Bruno Munari e lo svizzero Jean Tinguely, uno degli eroi del Nouveau Realisme, movimento artistico fondato da Pierre Restany e tenuto a battesimo proprio nella nostra città. Munari, a quel tempo definito da Picasso il «nuovo Leonardo», aveva appena publicato un’intera serie di manifesti tra cui «Macchina arte», «Macchinismo», «Arte organica», «Disintegrismo». A Tinguely Munari regalò due tra le più belle «macchine inutili» realizzate negli anni Trenta e i due, sottolinea Corà, «apparvero come gli anelli di congiunzione di quella grande storia artistica che con l’adozione di automatismi e macchine, dal futurismo al secondo dopoguerra, giunge fino al nostro millennio, spalancato sugli sviluppi futuri dell’impiego della telematica in arte».

Un altro milanese, Enrico Baj, diede qualche anno dopo un contributo efficace e personale alla relazione corpo-macchina, non solo con i cicli dedicati agli assemblage dei «Generali» e delle «Dame», ma soprattutto per la serie dei Meccani, le sue opere realizzate con i pezzi del celebre gioco di costruzione. Poi arrivò la body art, la cyberart e, a fine millennio, qualcuno mise i pescecani in formalina.

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