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"Quei tre anni col cardinal Martini. Una montagna di monete d'oro"

È stato il segretario dell'Arcivescovo di Milano, morto esattamente 10 anni fa: "Era un uomo di fede e di scienza con un cuore di bimbo"

"Quei tre anni col cardinal Martini. Una montagna di monete d'oro"

«In quei tre anni è come se mi avessero scaricato addosso una montagna di monete d'oro. Ancora non sono riuscito a contarle tutte. Ogni tanto mi viene in mente qualcosa di nuovo». Don Damiano Modena è un sacerdote, oggi parroco di Ogliastro Cilento, segretario di Carlo Maria Martini dal 2009 al 31 agosto del 2012, giorno della morte del cardinale, a 85 anni. Era afflitto da anni dal Parkinson che nel suo aggravarsi l'aveva costretto a tornare da Gerusalemme, dove si era ritirato a studiare dopo essere stato arcivescovo di Milano per oltre vent'anni, dal 1979 al 2002.

Era stato voluto alla guida di una delle più grandi diocesi del mondo da Giovanni Paolo II quando, biblista di fama, Martini era rettore della Pontificia università gregoriana. Da vescovo, aveva «disarmato» i brigatisti che nel giugno 1984 gli avevano consegnato fucili, bombe a mano, bazooka in Arcivescovado, aveva affrontato gli anni difficili di Mani pulite. Aveva guidato la Scuola della Parola, soprattutto per i giovani, e la Cattedra dei non credenti, dialoghi in cui a porre le questioni erano gli atei. Nel 1990, quando il tema non era ancora caldo, aveva dedicato il discorso di Sant'Ambrogio ai rapporti tra i cristiani e l'islam, sottolineando i punti di contatto e i modi del dialogo che erano i suoi fari, ma non mancando di osservare: «Il loro arrivo in Italia ha coinciso con una ripresa delle correnti più integraliste». Profeta di pace, era considerato progressista secondo le nostre categorie correnti. Il suo motto episcopale era «Pro Veritate adversa diligere», amare le avversità, ma anche gli avversari, nel nome della Verità. Così è difficile sapere con certezza quale fosse il punto di osservazione di questo figlio dell'alta borghesia torinese, che sarebbe diventato gesuita. Entrò nella Compagnia di Gesù a 17 anni.

Sono trascorsi dieci anni dal giorno della sua morte, quando i portali del Duomo rimasero aperti tutta la notte per contenere il flusso di fedeli e persone che volevano salutarlo. Il ricordo di Martini non si è affievolito in chi va a trovarlo sulla tomba in cattedrale. I suoi titoli, nonostante la "concorrenza" dei testi di Papa Francesco, hanno attrattiva persino a «Il libraccio», libreria di seconda mano che ritira i volumi che sa di poter rivendere al volo: il nome Martini è sufficiente. Chi l'ha conosciuto lo rimpiange, c'è anche chi non l'ha conosciuto e ha il rimorso di non averlo raggiunto a Gerusalemme o all'Aloisianum dei Gesuiti a Gallarate, quando riceveva tutti coloro che chiedevano di vederlo.

Segretario è dire poco, per definire don Damiano Modena, il sacerdote che non racconterà i fasti del Martini trionfante, quando mediava tra progressisti a oltranza e conservatori gesuiti ed era acclamato da folle osannanti e criticato da chi non amava la sua predisposizione al dialogo. Don Damiano è rimasto accanto a Martini giorno e notte, notte e giorno, come fratello, figlio, assistente, gli ha sentito pronunciare le parole: «Non ce la faccio più. Fatemi dormire». Era il 29 agosto, due giorni prima dell'addio del cardinal Martini a questo mondo.

L'ho chiamato al telefono per metterci d'accordo su quando e come poterlo intervistare, ma quella telefonata è durata 120 minuti ed è diventata lei stessa l'intervista.

Un ricordo personale, anche se sappiamo che lei si è offerto soprattutto per fare continuare il colloquio tra Martini e il resto del mondo.

«Una sera lo stavo mettendo a letto. Gli ho chiesto: Padre, c'è un periodo della vita in cui si sta tranquilli?. Lui ha alzato il dito in quel suo modo inconfondibile e mi ha risposto, serio: Mai. Ho riso e subito dopo ha riso anche lui. Aveva ragione, lo capisco adesso da parroco. Sulla consegna della armi da parte dei terroristi mi rivelò: ci sono cose che porterò con me nella tomba». Evidentemente si trattava di parole ricevute nel sacramento della Confessione.

Ma don Damiano non custodisce solo episodi tristi. Anzi: «Lui mi presentava agli amici così: Ecco Damiano, il nostro pagliaccio».

Com'è stata la vita quotidiana con un uomo malato ma attivo, che riceveva persone anche importanti ogni giorno, sacerdote e conoscitore delle Scritture, amato e conosciuto in tutto il mondo?

«Per me sono stati tre anni bellissimi e dolorosissimi. Ogni singolo giorno riguardo sulla mia agenda gli eventi principali e i ricordi sono tantissimi. Mi chiedo: come siamo riusciti a fare tutto con allegria? Ma lui era fantastico, non si è mai tirato indietro davanti alle sfide. Era come se l'uomo di fede e di scienza avesse messo la sua curiosità, il suo desiderio di indagare, in un cuore di bambino che ama capire, smontare i pezzi del gioco. Se c'era un divieto d'accesso chiedeva il perché».

Si sa abbastanza sul bambino Carluccio. Ci può raccontare questo bambino Martini alto un metro e ottantacinque e ultra ottantenne?

«Un giorno ha visto da lontano una cappella e ha detto: Andiamo là, andiamo là. Abbiamo attraversato un prato non tagliato, alto più di un metro, in pendenza, con lui in carrozzina che si godeva la montagna e diceva: Coraggio, coraggio, ce l'avete fatta. Arrivati alla cappellina, vedemmo che era circondata da uno steccato. E lui: Dov'è il problema? lo saltiamo. Mi sono messo le mani nei capelli. Alla fine si appoggiò in piedi su quello steccato e rimase a guardare l'orizzonte».

In questi anni lei ha visto la santità nella vita di Martini?

«Che lui toccasse le persone e loro guarissero, no. Se si intende santità come vivere il Vangelo e farlo proprio fino alle estreme conseguenze, sì. È morto abbandonandosi, senza avere più nulla di suo. Un giorno ci ha detto: Se anche di là non ci fosse nulla, sarei felice lo stesso di essere stato qui con voi».

Ricorda una frase di san Francesco di Sales, che nel buio di una crisi di fede, temendo la dannazione, disse: «Io vi amerò, Signore, almeno in questa vita, se non mi è concesso di amarvi nell'eternità».

«Un'altra volta mi disse: Bellissimo questo salmo, chissà se è vero. Un senso critico portato all'estremo. Lui aveva fatto del dialogo con i non credenti il cuore della missione, fino a essere contagiato dagli atei che per tutta la vita aveva tentato di ascoltare. Immagino sia ciò che accade a chi vive il Vangelo in profondità. Tanti uomini e donne di fede hanno attraversato notti dello spirito, da madre Teresa a Teresa di Lisieux. D'altra parte Gesù stesso morì dicendo: Elì, Elì, lemà sabactàni, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Le ha mai confidato chi fosse la persona o il personaggio che lo aveva colpito di più?

«Un giorno gliel'ho chiesto. Mi ha colpito che mi abbia risposto Nelson Mandela, il motivo era perché non aveva mostrato alcun risentimento per gli anni passati in carcere ed era totalmente riconciliato con se stesso e col proprio passato».

Come ha conosciuto il cardinale?

«Avevo scritto una tesi di dottorato sui suoi scritti, quando Martini aveva 80 anni. L'ho incontrato solo alla fine del lavoro. Il materiale che ho raccolto nella tesi, ma allora non potevo neanche immaginarlo, mi è servito per conoscere il suo linguaggio e riuscire a capire che cosa volesse dire quando rispondeva alle persone che gli rivolgevano domande e lui ormai parlava a fatica. Aver studiato a fondo il suo pensiero mi aiutava a leggergli le frasi sulle labbra. Lui poi confermava. Nel giugno del 2012 era voluto andare al Corriere a salutare tutti: aveva risposto a lungo alle lettere dei lettori. L'incontro è durato due ore. Io ero inginocchiato sotto di lui, al suo fianco, gli leggevo le frasi sulle labbra per amplificarne la voce. A un certo punto non ero sicuro di aver capito. Quando siamo usciti gli ho chiesto: Ho risposto bene a quella domanda?. E lui: Hai detto meglio di quanto pensassi io stesso».

Perché aveva voluto quel saluto due mesi prima della fine? Sentiva la morte avvicinarsi?

«Nel febbraio del 2012, intorno al suo compleanno (15 febbraio, ndr) aveva avuto una crisi cinestesica gravissima. Credevamo fosse la fine. Invece, guidati dall'aiuto del professor Gianni Pezzoli, uno dei massimi esperti di Parkinson, che lo aveva in cura, lo riavemmo tra noi. Ma già dal 14 o 15 agosto era chiaro che le sue condizioni si erano aggravate».

Sente molto la sua mancanza?

«La sento moltissimo. Sento la mancanza dell'uomo che aveva uno sguardo lucidissimo, profondo, sull'uomo. Era talmente acuto, con un'apertura vasta sul mondo, sull'indirizzo che stava prendendo l'umanità. La mia fatica di questi anni è dovuta all'assenza di una persona con uno sguardo profetico tanto lungo. Era un uomo molto amabile, tutti gli volevano bene perché si lasciava voler bene, era di una delicatezza di modi squisita».

Chi veniva a trovarlo in quegli anni?

«Venivano i suoi familiari, assecondando un desiderio di vicinanza che non avevano potuto appagare quando lui era vescovo di Milano. Quando arrivava Silvano Fausti, che in quegli anni era il suo confessore, parlavano lunghe ore senza bisogno di interpreti. Ricordo i fratelli gesuiti e gli amici vescovi, Bruno Forte, Renato Corti, Franco Brambilla, Roberto Busti, Giovanni Giudici, Francesco Brugnaro, i cardinali Angelo Scola e Dionigi Tettamanzi. Dall'estero molti cardinali africani. E poi tantissime telefonate. Tra i rapporti più importanti cito quelli con gli ebrei e in particolare l'amicizia che lo legava a Rav Giuseppe Laras, che veniva una volta l'anno, forse anche di più. Una volta c'è stato anche un incontro con i musulmani».

È vero che il cardinale riceveva tutti coloro che chiedevano di incontrarlo, nonostante la fatica della malattia?

«Aveva un tempo fisso al giorno dedicato alle visite ed era un impegno importante per lui, alla fine tutti andavano via con il loro pacchettino prezioso di risposte. Non solo. Regalava a chiunque tutto ciò che gli veniva chiesto, anche cose importanti e a cui era legato: il cappellino da vescovo, il quadrettino della Madonna, testi biblici particolari sui quali aveva studiato per anni. Ho assistito a una spoliazione totale dagli oggetti che aveva intorno. Aveva libertà interiore persino dalle cose su cui aveva lavorato una vita. Quando l'arciprete del Duomo, Luigi Manganini, gli chiese dove volesse essere sepolto, rispose: Decidete voi».

Eccoci ancora a parlare della sua morte: persino in quell'occasione è finito strattonato. C'è chi ha addirittura usato la parola eutanasia.

«Non mi piace parlare di queste cose astrattamente. Anni dopo la morte di Eluana Englaro ho incontrato il papà Beppino, amolto sofferente, e l'ho incoraggiato a darsi pace, ad andare avanti. Ma della morte del cardinal Martini si è parlato a vanvera. Hanno detto che sono state staccate le macchine, ma lui non aveva né macchine né ossigeno né respiratore. L'unica macchina che abbiamo staccato dopo la sua morte è stata quella del materasso antidecubito. Abbiamo messo le sacche di acqua e nutrimento dopo la sedazione. È morto in modo molto naturale. Quel giorno, il 29 agosto, aveva detto: Non ce la faccio più, fatemi dormire. Ormai non dormiva da notti. Abbiamo chiamato i medici palliativisti, come eravamo d'accordo, e hanno proceduto a una leggera sedazione. Ogni altro intervento sarebbe stato solo accanimento terapeutico. Insegno Bioetica, sono sempre stato attento. I dubbi rimangono sempre, ho scoperto che è così per tutti. Dopo un po' di tempo mi sono chetato».

Non si è pentito neanche di quella coperta peruviana che ha disturbato la sorella del cardinale, Maris Martini? Lei avrebbe preferito un lenzuolo bianco.

«So che Maris è rimasta colpita da quella coperta. Io non la ricordo. Ricordo che quel 31 agosto faceva freddo a Gallarate, tirava un ventaccio.

C'era stato un brutto temporale nel pomeriggio del giorno in cui lui è andato via».

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