Quel fifone del dottor Freud

Nei ricordi del suo medico curante, Max Schur, un lungo percorso attraverso le ossessioni le fobie e le sofferenze del celebre paziente

Freud aveva paura della morte. Non lo sapeva, naturalmente, anche se la riscoperta moderna dell’inconscio si deve a lui. Non si può neppure volergliene, per questa inconsapevolezza: a differenza di tutti gli psicoanalisti dopo di lui, di cui Freud stesso pretese (soprattutto sotto l’influenza, in questo, di Jung), che si facessero analizzare, il fondatore della psicoanalisi non aveva infatti potuto esplorare il proprio inconscio con l’aiuto di un’altra persona. Se l’era cavata con un’autoanalisi, come fanno oggi i più negligenti fra gli studenti di psicologia. Con l’analisi fatta in casa, però, per Freud come per gli altri, le ombre più profonde, le paure più angosciose, rimasero inesplorate. La paura della morte, dunque, restò nascosta, dietro manie come quella di calcolare fin da giovane, con complicati esercizi di numerologia, la data in cui la sua vita sarebbe finita. Il suo tormentato rapporto col termine della vita si manifestava anche, ad esempio, con svenimenti improvvisi, quando ci si avvicinava troppo alla questione.
Carl Gustav Jung, che fu suo allievo prediletto (prima di rompere con lui), racconta di quando a Brema disse a Freud che in quelle regioni della Germania settentrionale si trovavano i «cadaveri delle paludi», uomini preistorici che annegarono, o furono seppelliti negli acquitrini, dove furono mummificati dall’acqua e dagli acidi dell’humus, che li conservò perfettamente. Mentre Jung parlava di questo, Freud chiese concitato: «Perché tenete tanto a questi cadaveri?» e svenne. Non fu l’unico svenimento di Freud, quando si parlava di morte. Durante una conferenza di psicoanalisi, a Monaco, si discuteva del faraone Amenofi IV, e di un suo complesso negativo verso il padre. Jung contestò che il faraone avesse distrutto le insegne del padre sulla tomba. A quel punto Freud cadde dalla sedia privo di sensi.
Il timore della morte, in Freud, era così profondo da contagiare molti medici che lo curarono, i quali non riuscirono a dirgli la verità sul suo male, un cancro alla mascella, e a provvedere per tempo ed in modo completo alla sua asportazione. Tutta la vicenda è perfettamente ricostruita nel libro del suo medico, Max Schur, Freud in vita e in morte, ora riproposto, e rivisto, da Bollati Boringhieri (pagg. 515, euro 20). Egli stesso procede a rilento nel dirsi la verità, e ad affrontare il male che scopre in febbraio («ho scoperto sul mio palato una proliferazione leucoplastica» scriverà a Ernst Jones, amico e biografo), ma si decide a far esaminare solo alla fine di aprile. Ed i diversi amici medici, dermatologi, chirurghi, spesso contemporaneamente analisti, cui Freud si rivolge, si accorgono che è cancro, ma non glielo dicono, e così si perde altro tempo, e si interviene male. Freud finì col farsi operare da un chirurgo del quale, giustamente, non si fidava; l’intervento non andò bene, e quando vennero finalmente chiamate la moglie e la figlia Anna, «lo trovarono seduto su una sedia di cucina, coperto di sangue, senza l’assistenza né di un’infermiera, né di un medico». Poco dopo le due donne vengono mandate a casa; quando tornano scoprono che Freud aveva avuto una grave emorragia, e, non potendo parlare per l’operazione, aveva suonato il campanello, rotto. Solo l’intervento di un nano, minorato mentale, ricoverato con lui, corso a chiedere aiuto, l’aveva salvato.
Comincia così un percorso di sofferenze, interventi, protesi, dolori, che si intensificherà fino alla morte, sedici anni dopo, nel 1939. Un percorso che Freud affrontò stoicamente, reggendo i dolori, le manifestazioni invalidanti. Riprendendo a lavorare, e continuando a scrivere, anche se le opere di quegli anni appaiono meno lucide, pervase di pessimismo e di angoscia. Terrorizzato dalla morte, Freud non riusciva a guardarla, neppure nel suo lavoro di analista. La fine della vita, dice, «pone all’analisi un difficile problema poiché la morte è un concetto astratto che ha un contenuto negativo».

Parole nelle quali appare, in trasparenza, il mai risolto rapporto del fondatore della psicoanalisi con l’aldilà, e la religione. La morte è un passaggio difficile da compiere, se ci si lega al dogma che, poi, da lì, non si va da nessuna parte.

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