Quel gruppo di famiglia in un interno americano

È stata definita «la dark lady della narrativa americana contemporanea». I suoi libri però sono difficilmente classificabili come thriller, noir o gothic e raggiungono un pubblico molto più vasto di quello della letteratura di genere. Joyce Carol Oates è una scrittrice particolarmente abile nel dissezionare situazioni conturbanti, nell’esplorare il versante notturno della sfera sentimentale, nel cogliere le tensioni che attraversano in modo sotterraneo la società statunitense. La sua produzione, piuttosto vasta e solo in parte tradotta in italiano, contempla non solo romanzi, racconti e raccolte di poesia, ma anche sceneggiature e testi per il teatro. Due suoi drammi sono stati pubblicati nel 1999 da Sellerio con il titolo «Nel buio dell’America»: il primo di essi, «Dissonanze», è in scena da stasera fino a domenica 2 maggio all’Elfo Puccini con la regia di Francesco Frongia.
In una scena composta da un semplice baldacchino rosso posizionato su un pavimento a scacchiera troviamo i coniugi Gulick, una classica coppia della media borghesia americana la cui vita è stata sconvolta dall’arresto del figlio, accusato dell’assassinio della giovanissima vicina di casa. La loro versione del fatti (ma soprattutto la loro valutazione dell’accaduto, il loro criterio di giudizio degli eventi e del contesto in cui si sono svolti, il loro sistema di valori...) viene carpita da una voce fuori campo che ha il timbro inconfondibile di Ferdinando Bruni. È insomma reagendo alle sollecitazioni e agli interrogativi formulati da un interlocutore occulto che Emily e Frank Gulick (interpretati da due attori storici della compagnia dell’Elfo, Corinna Agustoni e Luca Toracca) giungono a prendere atto della realtà, a ricordare ciò che, nel tentativo di mantenere intatto il loro schema valoriale, avevano rimosso.
Molti indizi disseminati nel testo e ribaditi dall’ambientazione scenica fanno pensare che questo processo di lenta agnizione avvenga sul set di un talk show e che la televisione, con la sua lente deformante, giochi un ruolo tutt’altro che secondario nell’intera vicenda. Eppure la voce «ammaliante e ipnotica», come la definisce Frongia, non è quella del tipico conduttore televisivo: l’anonimo interlocutore parla infatti «in una lingua colta, fa citazioni filosofiche, che spiazzano i suoi ospiti e li trova impreparati, inadeguati». Invece il linguaggio dei coniugi Gulick, secondo il regista, «è molto semplice: spesso sono in difficoltà nel trovare le parole con cui rispondere, non sanno formulare un pensiero completo senza l’aiuto dell’altro. Come le vecchie coppie, si parlano addosso, si intromettono nel pensiero del coniuge... Fanno tenerezza nel loro goffo sforzo di darsi un tono mentre la voce li incalza, li incita a ricordare quello che vorrebbero dimenticare per sempre».
Il testo della Oates non è solo costruito su di un raffronto tra linguaggi, ma anche su una sottile lettura acustica del significato degli eventi. «La musica», chiosa infatti il regista, «è presente già nel titolo originale dell’opera, Tone Clusters (tradotto per chiarezza con Dissonanze), e viene usata dall’autrice in senso metaforico. Le dissonanze sono un gruppo di note adiacenti, diatoniche o cromatiche, che vengono suonate simultaneamente. Il loro effetto è sgradevole e disarmonico, appunto dissonante».

Il senso della metafora è piuttosto evidente: «Il mondo felice e roseo dei Gulick, fatto di casette pulite e di praticelli ordinati, dopo l’omicidio lascia il posto alla disarmonia, per mostrare che il prato è infestato da un’erba del colore del sangue».

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