È sufficiente essere ossessionati da una donna per decidere di liberarsene asfissiandola insieme alla propria figlia? Si provi a rispondere senza ipocrisia e senza attorcigliarsi in complicate interpretazioni psicologiche, riflettendo su noi stessi. Ci si chieda, allora, quante volte si vorrebbe che una persona che ci sta rompendo le scatole, impedendoci di organizzare la vita come vorremmo, sparisse. Sì, certo, qualcuno la vorrebbe anche far fuori, ma senza arrivare al gesto criminale, desidererebbe più «umanamente» che quella persona, pericolosa per i suoi progetti, d’incanto si volatilizzasse.
Scagli la prima pietra chi non ha mai pensato così.
E facciamo anche un altro passo avanti in questa confessione senza i veli dell’ipocrisia. Che l’uomo sia un essere con una violenta aggressività interiore, non sono io a dirlo, non è soltanto la psicanalisi nelle sue ormai infinite varianti, non è soltanto il pensiero moderno che, in proposito, ha trovato nel filosofo Hobbs una sintesi efficace con la sua affermazione «homo homini lupus», l’uomo è lupo per l’uomo. All’origine della nostra civiltà, la grande tragedia greca si sviluppa rappresentando i miti dell’incommensurabile crudeltà dell’uomo.
Allora, perché rimaniamo ancora attoniti di fronte ad efferati delitti e cerchiamo interpretazioni che vogliano sublimare la brutalità della violenza insita nell’uomo? Perché il nostro laicismo, figlio delle convinzioni illuministe sulla forza della razionalità, sulla bontà, sulla società che sviluppa benessere attraverso la naturale aggregazione degli uomini, sono illusioni a cui rimaniamo attaccati quasi fosse questione decisiva per la nostra esistenza.
E infatti continuiamo a fingere che chi crolla, abbandonando la corazza in cui è chiusa e controllata l’aggressività, la crudeltà dell’uomo, sia un caso eccezionale.
Ci è concessa, tuttavia, un’opportunità per liberarci dall’individualismo che esprime violenza, un’occasione che non può essere perduta. Lo spiega Sofocle nella sua tragedia Agamennone. L’opportunità è il figlio. Se noi siamo in grado di abbandonare l’innata crudeltà, violenza, aggressività di cui siamo affetti, che nel rapporto padre-figlio si manifesta con la reciproca invidia e competitività, l’uomo può ritrovare in se stesso una pace interiore. L’amore verso il figlio è il processo dissolutivo dell’egoismo e del male: una condizione possibile ma difficilissima da realizzare. Il cristianesimo per salvare l’uomo dal male, ha avuto bisogno del sacrificio di un uomo, del figlio, appunto, inviato dal padre sulla terra per morire per la salvezza dell’umanità. Dunque, la storia della crudeltà degli uomini è antica quanto l’uomo.
Il caso dell’oculista di Crema è emblematico della nostra semplice e banale crudeltà. Il dottor Iori è spavaldo, ha tutto ciò che vuole senza nessuna remora, ha successo professionale, non ha bisogno di aiuto perché è assolutamente indipendente nella sua modalità di organizzazione della propria esistenza. L’ultima donna, frutto delle sue conquiste, gli chiede la cosa più naturale: una vita in comune per la migliore educazione della figlia. Ma l’uomo non sopporta la richiesta più semplice e ovvia, e poiché lui non ha mai avuto particolare bisogno di quel controllo della propria aggressività che è una condizione essenziale per mediare e trovare accettabili compromessi, ritiene di non dovere scendere a patti con la donna che gli ha dato una figlia. Un pensiero semplice e immediato. Mette in scena un delitto che crede perfetto perché si ritiene infallibile. La figlia, che doveva essere l’opportunità - un dono - per ritrovare se stesso, liberandolo dall’aggressività, non viene neppure per un istante presa in considerazione.
Generalmente, un uomo sa che nella famiglia bisogna accettare dei compromessi per limitare tensioni e differenze di vedute, e proprio un figlio aiuta in questo processo di consapevole responsabilità; un uomo che fallisce nella sua famiglia, razionalizza il fallimento e accetta di vivere le conseguenze con buonsenso: anche questo è un principio di responsabilità. Insomma, si controlla la tenuta della propria corazza per mantenere ben chiusa l’aggressività.
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