Quel paese che non ama Tonino: «Troppi privilegi»

nostro inviato a Curno (Bergamo)

Curno, 7.678 abitanti più uno, il cittadino Di Pietro Antonio. Quando faceva il magistrato lo si vedeva più spesso da queste parti, la mattina andava a leggere i giornali giù in piazza alla vecchia società operaia, lo chiamano ancora il «bar dei comunisti», pochi ma irriducibili qui ai piedi di una Val Brembana irrimediabilmente leghista. «Zio Bepi», il gestore, in un pomeriggio gli organizzò una fiaccolata di sostegno che rimase storica, «arrivarono da tutta Italia» ricorda lui con occhio lucido. Era il 1994 e anche i leghisti andarono all’appuntamento, ma non alle 18. Arrivarono alle 4 del mattino precedente, e sulla torre del municipio issarono il Sole delle Alpi. Ore di scompiglio, il questore e il prefetto a chiamare il vicesindaco del Carroccio, «faccia togliere quella roba da lì», «fossi matto».
Oggi che «il suv del Di Pietro» si vede di rado, il vicesindaco è sempre lui, Roberto Pedretti. Non ha perso una puntata delle inchieste, giornalistiche e giudiziarie, sull’Idv e dintorni, ché lui ne sa qualcosa, «altro che valori». È lui il simbolo di una convivenza quanto meno complessa, nel paese che «il Di Pietro» che pensa in molisano da sempre lo vive come un concittadino quantomeno ingombrante. «Sarebbe pure simpatico se non fosse sempre il simbolo di qualcosa, da Mani pulite all’Idv» ti racconta la gente che se lo incrocia all’Esselunga cambia cassa, ché a uno così, che non fa vita sociale e Curno l’ha portata sulle prime pagine dei giornali solo per quelle due villette che si è costruito in circostanze tutte da chiarire, che gli devi dire? Pedretti, per esempio, dice che no, «io non lo considero un cittadino di Curno, è come se non esistesse». Eppure esiste, eccome. Risiede e vota qui, se pure ancora si ironizzi su quella volta che, alle ultime politiche, i fotografi si schierarono alle urne, ma poi sull’Eco di Bergamo le foto dell’ex pm non uscirono, surclassate da quelle di Renzo Bossi, il figlio «dell’Umberto».
E qui Di Pietro possiede non una, ma due villette. Vai a vedere le carte e viene a galla una vecchia storia di esposti anonimi e fantasiosi pareri tecnici con strascichi mai sopiti. Era il 1985, l’allora compagna di Di Pietro, Susanna Mazzoleni, con 38 milioni di lire comprò un casolare diroccato sulla riva del fiume Brembo, quartiere Marigolda, proprio accanto all’altra villetta, acquistata pochi mesi prima. Appena il tempo di iniziare i lavori di ristrutturazione e un provvidenziale crollo ai muri portanti consentì alla futura sposa di ricostruire tutto daccapo. «Succede che venga giù un muro» ironizza oggi Pedretti. I tecnici del Comune evidenziarono una «precarietà statica» dell’immobile, il legale dell’amministrazione chiamato a stabilire se fosse possibile il totale «rifacimento dell’edificio oggetto di concessione» segnalò che sì, tutto poteva considerarsi a norma, del resto «l’intera questione non può essere esaminata prescindendo dalla normativa ipotizzata dalla legge numero 47 dell’85», quella che sospendeva tutti i casi di abuso edilizio «sia sotto il profilo penale come sotto l’aspetto amministrativo». Un bel condono ed eccola, la villetta di viale Lungobrembo. Pedretti rilegge le carte con occhio insanguinato ma non è quella storia, a pesargli. Sono più quei nove-diconsi-nove anni di spese per la corrente per illuminarla, la villetta. «Gli abbiamo pagato la bolletta dal ’92 al 2001» racconta. Da magistrato, Di Pietro aveva diritto all’illuminazione del perimetro esterno alla casa, motivi di sicurezza sua e dei suoi vicini, si legge nelle delibere dell’epoca. Il Comune spese 10 milioni e passa per l’impianto elettrico, più le bollette da lì in poi, oltre a 12 milioni per rifare la viabilità per il transito della scorta. Scorta che, ricorda Pedretti, «la notte trasformava la città in una pista automobilistica, dovetti aspettarli al buio una sera per chiedergli di smettere».
«Io non ce l’ho con Di Pietro, ma mi vanto di averlo sempre trattato come un cittadino qualunque - dice il vicesindaco -. Mi sarebbe piaciuto che anche l’amministrazione di centrosinistra che governava nel ’92 avesse fatto lo stesso». Invece allora il Comune si sobbarcò le spese senza fiatare. «Chiesi un rimborso al ministero dell’Interno, segnalando che allo Stato e non ai cittadini di Curno spettava garantire l’incolumità di Di Pietro. Mi risposero così: “Al rimborso ostano ragioni di contabilità generale”». Non c’erano i soldi, insomma. Quando Di Pietro scese in politica, il Comune non ritirò la delibera sull’illuminazione. Fino al 2001, quando Pedretti minacciò il prefetto: «O Di Pietro si paga la luce o gli stacco la corrente». Detto fatto, finì con il leader Idv costretto a intestarsi il contratto.
Simpatico Di Pietro, ma «borioso», racconta Pedretti. Pesca a caso nella memoria: «Vuole che le racconti di quando doveva ritirare la licenza di caccia e pretendeva che aprissimo l’ufficio solo per lui? O di quando, con l’alluvione in corso, i vigili del fuoco dovettero andare a casa sua a spostare la piantina che era caduta sulla sua recinzione mentre avevamo la città allagata?». Che poi, anche averlo avuto ministro non è che sia servito granché. «La Brebemi è stata sbloccata solo adesso, faccia lei. Sono stati più i nostri parlamentari a impegnarsi. Perché per avere a cuore un territorio devi esserci radicato, lui invece... Non c’azzecca».

Un ospite, insomma, poco gradito. Quando si sposò mosse mari e monti per farlo non in municipio, ma in casa sua. Chiese che fossero il sindaco o il suo vice a celebrare le nozze. Ma quel giorno «impegni istituzionali» lo impedirono a entrambi.

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