F orse sarà stata la fretta, c’era da arrivare puntuali al 17 marzo, festa dell’unità nazionale, con un’iniziativa da scodellare sul piatto delle celebrazioni. Forse sarà stato l’improvviso amore per internet e le infinite democratiche possibilità che offre. Forse sarà stato un ragionamento più terra terra: se non possiamo battere il nemico, alleiamoci con lui. Ma da qualsiasi punto di vista la si voglia vedere, l’idea di surrogare le voci mancanti dell’Enciclopedia Treccani on line con le corrispondenti di Wikipedia è un autogol. È stata proprio quest’ultima, gratuita e a portata di clic, ad affondare i colossi cartacei di un tempo. Invitare i propri lettori a frequentare la concorrenza non sembra un’idea irresistibile.
Ma questa non è neanche la cosa peggiore. Il dolore vero è vedere l’Enciclopedia adottare, per ora implicitamente, speriamo non esplicitamente, il modello Wikipedia. I presupposti da cui parte l’Enciclopedia sono infatti inconciliabili con quelli di Wikipedia, e vogliamo sperare che non cambieranno. La Treccani affida le sue voci a specialisti, studiosi di chiara fama, il meglio della cultura italiana. È questa la garanzia della sua attendibilità, da cui dipende l’intero valore del suo stesso marchio. Wikipedia è invece un’opera collettiva, alla quale chiunque può partecipare con suggerimenti, correzioni e proposte. L’ideologia che sorregge l’iniziativa è questa: il sapere collettivo è superiore a quello individuale perché la quantità di informazioni, superata una certa soglia numerica, si trasforma automaticamente in qualità.
Al Giornale abbiamo documentato più volte la fallacia di questa impostazione. La cultura non si decide ad alzata di mano. Gli errori ci sono, eccome. E l’oggettività di alcune voci non è certo degna di una enciclopedia. Se volete una controprova, senza tirare in ballo fatti storici molto sensibili, fatevi un giro fra le voci dedicate a liberali, liberalismo et similia. Chiare quindi le conseguenze della commistione fra Treccani e Wikipedia. La prima imprime il suo autorevole marchio alla seconda, facendole un insperato regalo. E così facendo butta a mare il suo principale capitale.
Certo, era auspicabile che l’Istituto si aprisse alla tecnologia. La Treccani da anni affronta una sfida difficilissima. Le cifre parlano chiaro: l’Enciclopedia vendeva 50mila copie nel 2003, 26mila nel 2009, 15mila fino ad agosto nel 2010. Il Dizionario Biografico degli Italiani, un’altra opera fondamentale iniziata nel 1960, è perennamente nelle secche (a dire dell’amministratore delegato Franco Tatò, perde 630mila euro ogni anno) e ci vorrà minimo un decennio per arrivare alla fine. I colossi cartacei non possono competere con i rivali sul web ma, entrando nella rete in questo modo, la Treccani rischia di depauperare il suo patrimonio, investendo pure due milioni di euro, quelli necessari per il nuovo portale. Un conto è «ringiovanire» un’esperienza che risale al 1925, un altro mascherare l’assenza di progetti dietro a una digitalizzazione incompleta e autolesionista.
Nel 1985, la Treccani è diventata una Società per azioni. Le quote sono soprattutto di banche e Fondazioni più Telecom. Lo Stato non interviene con aiuti economici, ma ne sceglie il presidente, come l’attuale, Giuliano Amato. Non è che la politica stia proprio fuori dalla porta. È noto, perché lo ha rivelato proprio il Giornale, che esiste una sovrapposizione quasi perfetta fra l’organigramma della Treccani e quello della Fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema. Che cosa non ha funzionato? Una gestione da ente pubblico: personale pletorico e opere dai tempi biblici di realizzazione con redazioni costose.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.