Quell’alpino ucciso a 15 anni solo per la sua uniforme nera

di Roberto Nicolick

Dal 1943 al 1945, molti reparti dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, avevano nei loro ranghi, giovanissimi soldati, che svolgevano diversi ruoli di supporto sempre e comunque funzioni non combattenti: staffetta portaordini, postino per i soldati, piantone, portabandiera.
Questi ragazzini erano quindi, in buona sostanza, delle vere e proprie «mascotte» che non partecipavano ad azioni di fuoco anche se nell’espletamento delle loro funzioni rischiavano di essere colpiti dal fuoco nemico. Avevano una impronta ed un atteggiamento marziale, combattivo, con l’uniforme sempre in ordine, pieni di ardore patriottico e di grande entusiasmo ma erano semplicemente soldatini di rappresentanza che i loro ufficiali, responsabilmente, cercavano di non mandare alla morte.
Purtroppo dopo il 25 aprile del 1945, i soliti partigiani comunisti, non la pensavano allo stesso modo e i loro concetti di umanità, di convenzioni militari e di tolleranza non erano improntati all’umano buon senso e in base a direttive ottuse e feroci, la famosa Direttiva E27, si comportarono in modo bestiale non solo verso i militari repubblicani adulti uomini e donne, ma anche verso i giovanissimi in uniforme, colpevoli solo di indossare una uniforme diversa da quella dei partigiani. La Direttiva E27 indirizzata a tutte le brigate partigiane, il vademecum delle azioni «militari» finali, da svolgere sul territorio, era molto chiara e ancora più esplicativo fu un giornale, Il Lavoratore, del 1 maggio 1944: «..i patrioti italiani devono sterminare i soldati fascisti: sterminarli oggi, senza discriminazioni, perché si affretti la liberazione di tutta l’Italia» la continuazione è ancora più didattica e pedagogica, tanto per non dare luogo ad interpretazioni sbagliate, «tutti i cittadini hanno il diritto dovere di erigersi a giudici e giustizieri e di fare giustizia dei traditori a mano a mano che vengano a loro portata, in qualunque luogo, in qualsiasi ora della giornata, e con qualsiasi mezzo».
Appare chiarissima la dura sorte che attende prima, durante e dopo il 25 aprile 1945, qualsiasi italiano, giovane, adulto o vecchio, accusato, a torto o a ragione, di essere fascista o collaborazionista. La cosa può essere ancora più tragica se va a toccare un quindicenne, ma i suoi assassini superarono l’imbarazzo con grande tranquillità, dimenticandosi di avere una coscienza e lo uccisero crudelmente dandogli la compagnia di due povere ragazze e di un altro ragazzo diciannovenne che aveva aderito alle Brigate nere. Il ragazzino fu consegnato, incautamente, da un sacerdote al capo della polizia ausiliaria partigiana della zona, detto «spada», un soggetto molto particolare che era solito «interrogare» i prigionieri repubblicani con metodi e strumenti molto particolari. Gli «interrogatori», da cui era difficile uscire vivo, avvenivano in una casa di Pradleves, Cuneo, dove erano segregati questi poveri sventurati.
Quando i criminali iniziavano le torture, qualcuno dello staff evidentemente con l’inclinazione alla professione di disk-jokey, attaccava un grammofono a tutto volume per coprire le urla di dolore dei prigionieri che subivano «l’interrogatorio». Virgilio Ferrari è un ragazzino, uno di quei soldatini–mascotte di un reparto della Repubblica Sociale Italiana, nato a Milano il 3 dicembre 1929, decide di aderire alla repubblica e si arruola nel Battaglione Aosta della Divisione Alpina Monterosa a Dronero. Questo ragazzino, minuto di corporatura, basso di statura, infagottato nella uniforme da alpino e che dimostra meno degli anni che ha, vuole vivere la storia nel suo evolversi, da protagonista, e soprattutto dalla parte in cui crede fermamente. Sono giorni molto tumultuosi e soprattutto pericolosi, il battaglione partecipa a limitate attività di controguerriglia, poi a fine aprile del 1945, viene sciolto e il personale si consegna, armi e bagagli, ai partigiani della Provincia di Cuneo.
Il giovanissimo Virgilio, trova rifugio presso il sacerdote di cui abbiamo già parlato e viene avviato verso un convento di suore a Dronero, ma non ci arriverà mai. Il prete, forse incautamente affida il Virgilio ai partigiani di «spada», occasione splendida per questi personaggi per dare un bell’esempio, il poverino sarà fatto girare per alcune località del Cuneense, esibito come un criminale comune e poi «giustiziato». Come tanti, i suoi assassini in quella occasione, prelevano anche due ausiliarie repubblicane o presunte tali, già regolarmente picchiate, seviziate e rapate, Paola De Bernardi, domestica di Bernezzo, e Rosina Piana commerciante, entrambe native di Caraglio. In loro compagnia sarà ammazzato il ragazzino, in favore del quale il prete partigiano Don Lino Volta era intervenuto, data l’età, supplicando i partigiani affinché non fosse fucilato come gli altri, ottenendo l’assicurazione, rivelatasi falsa, che non gli sarebbe stata tolta la vita.
Pensate quali pensieri hanno attraversato la mente del piccolo alpino, pensate alla disperazione ed al terrore che hanno attanagliato il poveretto. I loro boia li trasferiscono tutti a Cuneo e li fucilano assieme a Antonio Quarti, un giovanissimo di 19 anni che vestiva l’uniforme delle Brigate Nere. L’eccidio avviene presso la 5° arcata del ponte nuovo in località Basse di Sant’Anna, il Viadotto Soleri, noto in seguito per l’alto numero di persone che hanno deciso di suicidarsi lanciandosi da esso. Una delle due povere ragazze, che aveva il capo rapato cosparso di catrame in segno di disprezzo, stringeva ancora sotto il braccio una pagnotta che qualcuno in un gesto di pietà le aveva donato per sfamarla.
Nella stessa notte i corpi vengono occultati in un rifugio antiaereo sulla scarpata di Piazza Vittorio e qui scoperti successivamente dalla polizia. Il corpo del giovane Virgilio presentava un foro di ingresso di pallottola sulla guancia destra. Il fratello del ragazzino Vittorio ricostruirà in seguito attraverso testimonianze la fine della mascotte, contrassegnata da coerenza e coraggio, rari in un giovanissimo.

Ai genitori del ragazzino, verrà detto che la fucilazione avvenne a causa di una parentela con un gerarca della Repubblica Sociale Italiana, ma era solo una malvagia bugia per giustificare un ennesimo crimine, compiuto contro un «nemico» di appena quindici anni.

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