Quell’autogol venuto dall’estero

Livio Caputo

Possiamo girarla come vogliamo, ma resta un clamoroso autogol. Il voto agli italiani all'estero, che ha permesso allo schieramento di Prodi di conquistare in extremis la maggioranza al Senato, è infatti una creatura del centrodestra, sponsorizzata durante la prima repubblica anche dal nostro giornale e portata a compimento con encomiabile tenacia da Mirko Tremaglia di Alleanza Nazionale. Il guaio è che, dopo averla imposta non senza fatica a un Parlamento recalcitrante, la Casa delle Libertà non ha curato abbastanza i collegi d'Oltremare e invece di presentarsi sotto un solo simbolo come ha fatto l'Unione, ha affrontato un elettorato remoto e non sempre bene informato sulle nostre cose in ordine sparso.
Quando, negli anni Settanta, si affacciò per la prima volta seriamente sulla scena politica, il disegno di legge per il voto agli italiani all'estero doveva essere uno strumento per opporre un fresco blocco di elettori di fede moderata alla graduale avanzata del Pci. Erano i tempi della guerra fredda, e c'era la ragionevole certezza che i nostri emigranti negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in America latina ci tenessero ad impedire che l'Italia scivolasse fuori dall'orbita atlantica. L'idea, allora, non era di farli votare in circoscrizioni ad hoc, come è avvenuto domenica, ma nei loro collegi di origine, perché andassero a rafforzare i partiti di governo.
Oltre a quello di Tremaglia, vari progetti di legge vennero depositati a questo fine nei due rami del Parlamento, ma senza mai ottenere il beneplacito del governo. L'Associazione Nazionale Alpini, in collaborazione con il Giornale, promosse allora una raccolta di firme per un Ddl di iniziativa popolare, che riscosse vastissimi consensi ma finì anche lui dimenticato in un cassetto. Fu soltanto nel 1994, con la prima affermazione del Polo delle Libertà e l'elezione di Tremaglia, fino a quel momento deputato dell'Msi escluso dall'arco costituzionale, a presidente della Commissione Esteri della Camera, che il treno si mise finalmente in moto.
La legge non ha avuto una gestazione facile, sia per oggettive difficoltà tecniche, sia per la persistente (sia pure attenuata) opposizione della sinistra, sia per la resistenza passiva della macchina burocratica, che vedeva profilarsi all'orizzonte una grossa mole di lavoro: censire tutti gli italiani all'estero cui una generosa legge sulla cittadinanza aveva consentito di ottenere il doppio passaporto, mettersi in comunicazione con loro, redigere liste elettorali attendibili. Gli stessi Paesi a forte immigrazione italiana, specie Canada e Australia, erano tutt'altro che entusiasti dell'idea di dovere ospitare una campagna elettorale italiana, e presentarono le loro obiezioni alla Farnesina. C'erano anche serie obiezioni di carattere costituzionale, basate sul principio che solo chi è tenuto a pagare le tasse può legittimamente votare leggi di bilancio; e c'era, soprattutto, il dubbio che cittadini italiani che forse non avevano mai visto il Paese d'origine, spesso parlavano a stento la lingua e in genere sapevano poco o nulla dei nostri problemi potessero dare un reale contributo alla vita politica del Paese. Anche il passaggio del sistema elettorale da proporzionale a maggioritario aveva complicato le cose, perché far votare gli emigranti nei collegi uninominali avrebbe potuto, in numerosi casi (per esempio le Isole Lipari) stravolgerne completamente gli equilibri.
Va a onore di Tremaglia, diventato ministro per gli Italiani all'Estero, di avere superato tutti questi ostacoli, ed avere imposto che i quasi tre milioni di cittadini che si sono iscritti nelle liste ottenessero 12 deputati e 6 senatori. Doveva essere un orpello del Parlamento, le fondamenta di una specie di piccolo Commonwealth italiano. Nessuno si aspettava che il voto degli emigranti potesse essere decisivo per far vincere le elezioni alla sinistra, evitando il «pareggio» che avrebbe rimesso tutto in discussione. Se il buon Mirko lo avesse immaginato, forse non si sarebbe dato tanto da fare.
L'autogol al 90° minuto potrebbe, tuttavia, non chiudere la partita.

Una maggioranza che ha bisogno del voto di parlamentari che abitano a migliaia di chilometri di distanza e presumibilmente, non si trasferiranno a Roma appare infatti di una fragilità senza precedenti.

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