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Quell’avamposto dove trent’anni fa c’erano i sovietici

È la fortezza Bastiani del nostro contingente, l’avamposto più a nord delle quattro province sotto comando italiano nell’ovest dell’Afghanistan. Ma a differenza del fortino del tenente Drogo raccontato da Dino Buzzati qui i «tartari», i talebani, si vedono e bussano alle porte. I primi a capirlo sono gli alleati spagnoli basati a Qala I Naw, il capoluogo della provincia di Badghis, 160 chilometri a sud di Bala Murghab. Il 10 agosto 2007, quando lassù non esiste ancora nulla, 24 dei loro esplorano il territorio con un reparto afghano. Per superare quei 160 chilometri di forre e dirupi ci vogliono, quando va bene, 9 ore di jeep. Quando cadono in un’imboscata e si ritrovano circondati con sette afghani morti e due compagni feriti si sentono perduti, urlano «siamo fottuti» nelle radio, implorano l’intervento dei nostri elicotteri Mangusta. Per salvarli i piloti italiani sparano 177 colpi di cannone e un missile Tow lasciandosi dietro più di qualche morto nemico. È solo l’inizio. Un anno dopo tocca ai nostri fanti dell’aria del 66° reggimento Trieste sperimentare le insidie di quella «pianura coltivata racchiusa tra i fianchi erbosi e tondeggianti delle colline» descritta nel maggio 1934 da un estasiato Robert Byron in «La Via per l’Oxiana».
«Il 6 agosto 2008 quando arrivo a Bala Murghab tutto appare assolutamente tranquillo... quella pianura e il suo fiume ci sembrano un piccolo paradiso. Quel pomeriggio sistemo la sicurezza, posiziono i mezzi e mando tutti a dormire. Sarà la mia unica notte di quiete». Così il 26enne tenente Alfredo Perna ricorda l’arrivo in quella vallata verdissima dopo due giorni di montagne di polvere fine come il gesso e precipizi senza fine. Tre settimane dopo Alfredo Perna e le sue Aquile sono già dei veterani. Il paradiso è diventato un inferno, la base un’ultima ridotta in un mondo ostile dove combattimenti e attacchi si susseguono senza sosta. Per intuirlo basta guardarla. La fortezza Bastiani, quell’immenso ex cotonificio è un quadrilatero di mura sbrecciate e ferite da 30 anni di guerra. I primi a metterci piede negli anni Ottanta sono i sovietici. Già allora gli shuravì sperimentano l’ostilità di un’enclave etnica dove, a differenza delle vallate circostanti, regna la legge dei pashtun, le tribù dei talebani di oggi. Trent’anni dopo, poco è cambiato. I più anziani chiamano anche i nostri soldati shuravì, confondendoli con i nemici di 30 anni prima, gli unici stranieri incontrati nella loro vita. Anche oggi l’unico obbiettivo resta la cacciata dei farang, degli intrusi infedeli da quella zona franca affacciata sulle frontiere del Turkmenistan dove per anni hanno goduto di totale impunità e beneficiato dei proficui traffici di armi e oppio.
Il controllo di quell’insidioso passaggio a nord ovest dal punto di vista della Nato è invece essenziale per realizzare un collegamento permanente tra le quattro province a comando italiano e i territori del grande fronte settentrionale sotto egida tedesca. In quell’insidioso paradiso perduto più delle pallottole e dei razzi fanno paura l’isolamento e la distanza dalle retrovie. «L’idea della morte, l’idea di finire in mano loro e di non sapere cosa ti potrebbe succedere ti passa inevitabilmente per la testa – ammetteva Perna -. Potremmo finire le munizioni, potremmo restare isolati per qualche cavolo di ragione, quelli ci verrebbero a prendere e noi non potremmo fare niente. Ecco, quando sei lassù quest’idea non t’aiuta certo a dormire rilassato».

Gli stessi fantasmi, le stesse incognite che l’altra notte, consumatasi l’adrenalina dell’ultima battaglia, affollavano i sonni inquieti dei ragazzi della Folgore.

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