Quell’ingrato compito di bussare alla porta e dare un colpo al cuore

RomaIl capo, l’uomo che coordina le buone e le cattive notizie, la chiama «empatia»: immedesimarsi nell’altro, sentire quello che lui, o lei, percepisce. Soffrire della stessa tristezza. È doloroso, questo lavoro: spiegare che qualcuno non c’è più. O confermarlo, se le televisioni sono arrivate prima: «Sì signora, purtroppo suo figlio...». Se n’è andato, per sempre. Ogni volta le parole sembrano lontane e micidiali.
Sono quattro, tre uomini e una donna, le persone che alla Farnesina comunicano la morte. E che comunicano anche la vita, dipende da come s’inclina quella linea scivolosa che separa rovina e salvezza in ogni emergenza: «Diamo anche molte belle notizie», ci spiega il ministro plenipotenziario Fabrizio Romano, da due anni a capo della struttura di punta del ministero degli Esteri: l’unità di crisi, il luogo dove si coordinano tutti i piani eccezionali di intervento per il recupero di ostaggi, o di connazionali in grave pericolo di vita dopo un attentato, o una catastrofe naturale. Sul libro degli ospiti, l’ultima dedica è del ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta: «Sono orgoglioso di voi!». In quest’ufficio non si trovano fannulloni: i dipendenti sono circa trenta, c’è una cucina e una piccola stanza con due letti per riposarsi la notte. L’unità di crisi non chiude mai. In pochi luoghi come questo si ha l’impressione di trovarsi in un cuore pulsante dello Stato: la sala riunioni con lo schermo del mondo; la sala operativa sintonizzata su una ventina di televisioni italiane e estere; in un angolo, la valigetta della telemedicina per la diagnosi a distanza. Poi l’ufficio che gestisce i siti viaggiaresicuri e dovesiamonelmondo, dove si stanno registrando tutte le scolaresche italiane: per sapere con esattezza dove si trovano i ragazzi in gita nei cinque continenti.
E le due stanze delle «telefonate»: il filo con il dolore, o con la gioia, sempre per quell’alterna sorte che in questo luogo si amministra quotidianamente. «La cosa più importante per noi - racconta Romano, 51 anni, ex ambasciatore a Tbilisi - è lottare contro il tempo». Arrivare prima dei mezzi d’informazione, ma non per competizione: «Cerchiamo sempre che i familiari siano informati da noi, e non dalla stampa». Quando esiste un margine di anticipo sulla notizia, «inviamo sul posto i carabinieri»: è preferibile che ci sia qualcuno accanto a un padre, o a una madre, nel momento delle parole più dolorose. Si cerca il contatto prima con i fratelli, dei genitori, se è possibile, ma questa non è una regola: «Abbiamo visto casi in cui un anziano padre era più forte dei ragazzi». La telefonata parte solo quando la notizia è verificata senza incertezze: dopo che un funzionario dell’ambasciata ha «visto con gli occhi» che una persona è deceduta. E la telefonata avviene dopo un lavoro non breve di ricerca: attraverso le forze dell’ordine si risale alla famiglia. Poi si compone il numero. E ogni volta, dice Tiziana D’Angelo, l’unica donna delle quattro «voci» dell’unità di crisi, «lo fai con la morte nel cuore». «Sono cose che non s’imparano queste, è esperienza», spiega Romano. Ne parla con la freddezza e il rispetto di un medico, ma poi usa quella parola «empatia», che riassume tutto: bellezza e fatica di un lavoro sul crinale della vita. La formazione diplomatica conta, ma nessuno studio sui libri può spiegare come si fa questo strano mestiere di ambasciatori del dolore.
Il telefono, per loro, può squillare nel cuore della notte, sempre, la reperibilità non ha orari: «E allora ti metti subito a cercare, a prendere i contatti», racconta Tiziana, a Roma da tre mesi dopo una lunga esperienza all’ambasciata di Tel Aviv.
Ma non ci sono solo le belle e le cattive notizie. C’è anche la telefonata di conforto. Quando i rapimenti vanno avanti per molto tempo, per esempio. Gli ultimi casi: i sequestri dei coniugi Cicala e dei dieci marinai italiani a bordo del rimorchiatore Buccaneer. Ogni «voce» si prende a cuore un parente. «Chiamiamo le famiglie tutti i giorni», spiega Romano. Anche quando non ci sono novità.

Semplicemente per far sentire la presenza. E a volte «le telefonate durano ore». Si dice «quello che si può dire». Si omettono le informazioni non confermate. Ma la regola è «la verità, sempre». Fino alla meno spiegabile.

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